LA "STREGA". NE' VITTIMA NE' INNOCENTE. Osservazioni su un articolo di R. Contardi.
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- Scritto da Gian Paolo Scano
In un recente articolo Roberto Contardi (La mortificazione della Metapsicologia e il disorientamento della psicoanalisi. Alle origini dell’esorcismo della strega, (2020), Rivista di psicoanalisi, LXVI, pp.11-33) affronta il problema del declino della metapsicologia, cui, in un passaggio assai noto, Freud si riferì come alla “strega”. L’A ricostruisce in modo accurato e puntuale la quasi darwiniana catena delle ascendenze genetiche degli esorcisti che, nel decennio a cavallo del 1970, giunsero a condannarla. Dalla sua ricostruzione il lettore può ricavare che a colpire alle spalle la vittima innocente fu il malefico virus germinato nella “infelice evoluzione personale e scientifica” di Ferenczi, trasmesso agli eredi e incattivitosi nell’incontro, anche utilitaristico, con il mondo accademico americano e la sua visione pragmatista e positivista della scienza. Un lettore avvezzo all’indagine storico-critica credo debba avere, su questa interpretazione, qualche dubbio e più di un’incertezza.
Non ho ascendenze magiare né particolare simpatia per Ferenczi. Credo, però, di avere una discreta familiarità con la metapsicologia, per averla studiata e insegnata per una quarantina d’anni e per averle dedicato più di una pubblicazione, dalla prima nel lontano 1982 all’ultima nell’assai più prossimo 2015. La lunga frequentazione mi offre buone ragioni per pensare che il destino della strega è stato determinato da una trama assai più intricata e complessa di fattori, anche se la ricostruzione della “congiura magiara”, potrebbe aggiungere un elemento succoso, alla comprensione del suo spiacevole destino. Alla comprensione del “come”. Sicuramente non del “perché”!
Intanto la “mortificazione” della strega si è sempre nutrita, ancora calde le ceneri di Freud, della diffusa noncuranza per la teoria formale, che il popolo degli analisti ha, da sempre, più riverito e venerato che approfondito e conosciuto. Dagli anni ottanta in poi la già inerziale “mortificazione” è andata scivolando in una più marcata, silenziosa, obliterazione, che si è fatta, oggi, inconfessata rimozione tanto che temo sia difficile trovare tra gli analisti più di qualche nostalgico appassionato che sappia davvero di che si parla quando si parla di metapsicologia.
Nel determinare questo progressivo venir meno hanno certo avuto un ruolo anche le campane a morto dei rapaportiani (gli “esorcisti”!), ma nel quadro di un ventaglio di fattori sostanziali e all’interno di un processo complesso partito ben più da lontano. Del resto l’impresa stessa di Rapaport e il suo esito imprevisto ebbero sempre eco assai fievole almeno nelle nostre contrade. In Italia non furono né le riviste specializzate né uno psicoanalista o un cattedratico a riferire della crisi della metapsicologia. A parlarne per primo in modo ampio e documentato, fu nel 1981 Giovanni Magnani, un gesuita dell’Unversità Gregoriana, cui, anni dopo, fece seguito, coraggiosamente, Giordano Fossi. In ogni caso mi riesce difficile pensare che la congiura magiara possa spiegare la riduzione della strega a metafora, proclamata in un autorevolissimo congresso dell’IPA per bocca del suo autorevolissimo presidente o la vera e propria obliterazione dell’idea stessa di teoria generale, che, personalmente, ritengo assai più grave della dipartita della metapsicologia, con cui, a torto, viene evidentemente equiparata e confusa.
L’ argomentazione di R. Contardi poggia sull’assunto che la strega sia stata un’innocente, incolpevole vittima e che responsabile della sua mortificazione sia stato l’improvvido incontro con la metodologia e la visione del mondo positivista americano, incautamente perseguita e voluta dai Menninger, dagli Hartmann e dai Rapaport. Non ho particolare simpatia nemmeno per quel mondo a stelle e a strisce, ma temo che l’assunto non sia così autoevidente, che la strega non sia stata né vittima né innocente e che il suo destino fosse invece già profondamente inscritto nel suo corredo genetico.
La psicoanalisi non ha avuto bisogno alcuno di navigare sino agli Stati Uniti per incontrare il positivismo e farsene avvelenare: nel positivismo, per di più nella sua più dura versione fisicalista, ci è nata! Il positivismo fisicalista era semplicemente il mondo scientifico del dottor Sigmund Freud, che nel laboratotio di Brücke, uno dei tre cavalieri della “Scuola fisica di Berlino”, era cresciuto e si era formato come ricercatore. Non è un reato. Non ci è dato scegliere né l’utero né la culla e quello era di necessità l’utero e la culla della creatura di Freud, che, infatti, nell’incipit del Progetto scriveva: “L’intenzione di questo Progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili al fine di renderli chiari e incontestabili”. Contardi potrebbe obiettare che ciò avveniva “prima” dell’abbandono dei “neurotica” e dell’effettiva nascita della strega, che, in quel “prima”, era solo in “gestazione”. Di solito, però, il neonato che viene al mondo è lo stesso “feto” che prima era in gestazione! Credo sia sufficiente anche una non troppo approfondita analisi storico-critica e teorico-critica delle tre tranches dedicate allo “strumento composito” nel VII capitolo della Traumdeutung per scoprire che l’apparato psichico del 1899 è il medesimo che era stato abbozzato nel 1895, con qualche superficiale aggiustatura nella nuova trasposizione psicologica. Il cervello “reale” che traspare, per quanto indeciso e nebuloso, nella filigrana dell’apparato psichico è il medesimo. Del resto, senza l’originario imprinting meccanicistico non sarebbe nemmeno pensabile un “apparato” come aggeggio ingegnieristico che produce il comportamento. Potrei aggiungere che persino il concetto di inconscio, deve la sua stessa possibilità di esistenza a quell’impianto, trova, infatti, la sua giustificazione teorica nell’assunto della continuità psichica. Questa non è né un fenomeno né un dato osservazionale, ma soltanto un postulato necessario a una teoria che si vuole deterministica, in cui i significati possano essere considerati prevedibili in funzione di sequenze determinate di cause e di effetti, ciò che, in assenza di una determinazione cosciente, porta a supporre processi psichici inconsci per non interrompere la catena causativa. Del resto è sufficiente rileggere la paginetta iniziale di Pulsioni e loro destini (1915) per avere di prima mano conferma del “positivismo” freudiano. Non è difficile intravedere in quelle righe l’inconfondibile profilo di Mach. Freud, del resto, poteva costruire la sua teoria dell’apparato soltanto servendosi della strumentazione concettuale, delle premesse epistemologiche e delle conoscenze disponibili nel suo mondo scientifico-culturale. Anche questo non è un reato, ma un’ovvia necessità sempre carica di limiti e conseguenze, che un’accurata analisi storico-critica potrebbe (e dovrebbe!) individuare nel profilo originario della strega e nel suo non lineare e contrastato sviluppo. Purtroppo, però, il mondo psicoanalitico ha sempre privilegiato la “storia”, specie se dotta e riverente, piuttosto che la fredda, ma più logica e più neutrale, indagine storico-critica.
Contardi potrebbe ancora obiettare che, anche dato e non concesso che una tale struttura epistemologico-concettuale sia così profondamente connaturata alla metapsicologia, non si possa però negare che la prepotente novità della teoria freudiana sia qualcosa d’altro e di diverso rispetto all’originaria impalcatura meccanicista. Vero! La potenza innovatrice della teoria freudiana non nasce dal profondo sostrato positivista, cui deve soltanto la compiutezza e coerenza della sua struttura formale, che rappresenta, comunque, la prima organica organizzazione del campo concettuale e osservazionale per la costruzione di una psicologia clinica scientifica. La novità scaturisce, infatti, dall’oggetto inusitato che, con tale inadeguato e limitato armamentario epistemico e concettuale, Freud decise di esplorare, poggiando, da un lato, sulla fedeltà al modello, che lo costringe a costruire una teoria nei limiti della logica scientifica, ma restando dall’altro lato, fedele alla natura del suo materiale, che lo conduceva, per vie nuove, ben lontano dai sentieri ristretti del positivismo. Per questo, del resto, il suo discorso, ha ancora una rilevanza per noi, che, pure, necessariamente dobbiamo muoverci secondo ottiche epistemologiche assai differenti e possiamo avvalerci di conoscenze che gli erano precluse.
La novità e la potenza euristica della strega non possono però nasconderne o minimizzarne i problemi, le incongruenze e le aporie, che ci sono e andrebbero riconosciute.
La metapsicologia nacque e assunse la sua forma pressocché definitiva nell’ultimo scorcio del XIX secolo nel bel mezzo del sopravvenire della crisi della meccanica classica, che cominciava a produrre, per dirla con Heisenberg, radicali “mutamenti nelle basi della scienza”. Di quella crisi, che metteva in discussione lo schema conoscitivo Soggetto-Oggetto e apriva la questione nuova del soggetto della scienza, la psicoanalisi non fu passiva spettatrice. Fu protagonista! Protagonista, ma anche, involontariamente, vittima. Freud, nella sua scrivania di architetto costruttore della teoria come nella sua poltrona di clinico, non poteva che collocarsi nell’ovvio e consolidato punto di vista del soggetto conoscente che osserva e conosce l’oggetto conosciuto. Ciò che tuttavia, suo malgrado, in tal modo osservava, dall’alto e dal punto di vista di Dio, seppur munito della necessaria indifferenz, - che prima che alla neutralità analitica disattesa da Ferenczi, rimanda a quella del ricercatore che guarda dall’oculare del microscopio - non erano pezzi inesplorati della res extensa, bensì, le viscere mai viste della res cogitans, la polta soggettiva dell’occhio, supposto oggettivo, dell’Io conoscente. Qui è il punto di nascenza della novità freudiana, ma anche del destino già scritto della metapsicologia. L’oggetto osservato (l’esperienza, il vissuto e le narrazioni di un soggetto) non era più un consueto docile e passivo “oggetto naturalistico”, ma un “(s)-oggetto-osservato-che-osserva”, con cui, a dispetto dell’indifferenz (e della “neutralità” analitica), - che volontaristicamente si provano a salvaguardare la linearità e pulizia dello schema Soggetto-Oggetto, - non si può non interagire come non si può non comunicare. Lo decide la logica a prescindere da ogni teoria. L’incompatibilità radicale tra l’occhio positivista e l’ “oggetto soggettuale” determina una non voluta, inevitabile, ma sostanziale, frattura epistemologica che segna sin dalle origini e dalle fondamenta la struttura della strega, interferendo profondamente, per quattro decenni, con il suo sviluppo, dettando le ricorsive crisi e lasciando uno stigma indelebile, nella carne viva della costruzione teorica. E’ tale frattura, profondamente inscritta nel suo Dna, ma mai sufficientemente riconosciuta, la vera causa del destino della strega, delle sue debolezze e del suo doloroso ma necessario venir meno.
Nata come disciplina naturalista e fisicalista, ma occupando di fatto lo spazio logico di una teoria del soggetto, senza poter dichiarare di esserlo e senza possedere una (a quei tempi inesistente) adeguata attrezzatura concettuale, la psicoanalisi si è presto trovata, infatti, nella sua costruzione e sviluppo, a sgomitare contro le strettoie del carapace fisicalista, che però ne costituivano il basamento e le colonne portanti (arco riflesso, stimolo esterno al corpo e all’apparato, energia psichica, realtà psichica vs. realtà reale, principio di costanza, punto di vista economico-dinamico sulla base dell’helmholtziano principio di conservazione, che definisce l’energia (in questo caso l’enigmatica “energia psichica”) come l’invariante in un processo di trasformazione, almeno teoricamente misurabile).
Questo costante sgomitare è leggibile nelle svolte e nei punti di crisi del suo sviluppo storico, in particolare in quelli relativi all’ala difensiva del conflitto, ma sopratutto nelle vicissitidini del concetto di “Io”, dapprima giustamente espunto, in accordo con l’ottica processuale, poi surretiziamente reintrodotto in termini pulsionali (pulsioni dell’io), quando già si profilava l’emergere del drammatico problema che le psicosi ponevano alla strega. Innanzi alla possibilità di dover sottoscrivere (con Jung) il crollo della teoria della libido o la sua dequalidicazione a teoria ad hoc per le nevrosi di transfert, Freud, che era bravissimo a trovare sempre un coniglio nel fondo del capello - (ne aveva già scovati almeno altri due: il concetto di fantasia inconscia, che sconfina già di parecchio nel mentalismo, e quello di transfert, che sopperisce con l’intersoggettività fossile oggettualizzata, all’incapacità della strega di cogliere l’intersoggettività attuale) - scova nel narcisismo e nell’Io narcisistico un coniglio davvero geniale, che gli consente con una ipotesi ad hoc (di questo si tratta!) di non gettare via la teoria della libido e di connettere lo schema originario libido-difesa a quello, logicamente più ampio, soggetto-mondo esterno. Freud sa benissimo che il concetto di libido narcisistica è un’ipotesi ad hoc, che poggia sulla distinzione puramente verbale tra libido dell’io e interesse delle pulsioni dell’io. Non usa il termine, ma esplicita il senso in modo assai chiaro. Si trattava del resto di una manovra del tutto legittima che, consentendo di prendere tempo e di usufruire del vantaggio iniziale garantito dalle conoscenze ricavate nell’analisi delle nevrosi, avrebbe potuto portare a una modificazione dall’interno della teoria, che sembrava poter virare, grazie al narcisismo, in una direzione più prossima ad una teoria soggettuale. Freud ci andò molto vicino. Tra il 1914 e il 1917 il traguardo sembrava raggiungibile e, infatti, nella lez. 26 scriverà: “la psicologia dell’Io alla quale aspiriamo non deve essere fondata sui dati della nostra autopercezione, ma, come per la libido, sull’analisi dei disturbi e delle devastazioni dell’Io. E’ verisimile che quando quel maggior lavoro sarà compiuto, non terremo in gran conto la nostra attuale conoscenza dei destini della libido, attinta dallo studio delle nevrosi di traslazione”. Non Avvenne. Anzi addomesticato il narcisimo - (con qualche acrobazia tendenziosa, che sfiora talvolta la mistificazione e anche con qualche sorprendente incidente, come quando “dimentica” di aver appena segato le gambe della sedia su cui fa accomodare il Super introducendolo nel coro dei concetti!) - con la sua riduzione a pura vicenda pulsionale, la teoria divenne ancora più pulsionale e ancora più mentalista, alimentando, certo involontariamente, accanto a quella processuale, una seconda anima, omuncolare e intenzionale, che prese a circolare sottobanco come il fantasma nella macchina. Il fantasma, del resto, si poteva nutrire facilmente, della spiegazione dell’intenzionalità inconscia in termini di fantasie e desideri, che implicano una direzionalità omuncolare e mentalista che mal si concilia, oltre che con l’impalcatura meccanicistica, anche con la logica, dato che presuppone la spiegazione dell’azione di una qualunque Maria, tramite la sua totalità stessa, ma miniaturizzata, omuncolarizzata e ridotta a fattore causante. Pochi hanno notato che la tendenza freudiana ad antropomorfizzare i processi - che si esprime nell’attribuzione di scopi, intenzioni e strategie anche alle istanze, arbitrariamente, trasformate, così, in agenzie sub-soggettive - non è soltanto una cattiva abitudine o una veniale trasgressione del rigore concettuale. Esprime, invece, una necessità, che ha la sua radice nel fatto che la teoria si trova a dover spiegare il comportamento di un soggetto, senza poter essere una teoria del soggetto. I lettori meglio disposti nei confronti di Freud, hanno interpretato tali ibride escrescenze come una seconda anima umanistica, quelli meno ben disposti hanno preferito parlare, più brutalmente, di vitalismo, finalismo e mentalismo. In realtà si tratta semplicemente di ammettere, che la teoria freudiana si configura dal punto di vista epistemologico, per la sua origine, che colloca il soggetto nella strettoia dell’asse soggetto-oggetto, come un cripto-dualismo all’interno di un monismo dichiarato. Di fatto, per tutto il secolo XX, la psicoanalisi, in quanto scienza dei processi, che si occupa dei vissuti e dei significati, si è trovata in bilico tra i due versanti del dualismo cartesiano e del muro diltheyano, non potendo rinunciare né alla sua vocazione scientifica né al suo oggetto soggettuale. Una scienza del soggetto sembrava, infatti, impensabile e la psicoanalisi, che, per natura e posizione logica, non può essere, che una scienza della soggettività, ha scontato l’errore di Cartesio, fungendo da ghiandola pineale tra la scienza riduzionista della res extensa e la scienza ritenuta impossibile della res cogitans.
L’esito, certo non previsto e non voluto, della ricerca rapaportiana, rivela semplicemente la nudità del re, che alla fine giunge al pettine: la strega per poter garantire i suoi sortilegi conoscitivi, deve presupporre un cervello che appare assai differente dal “cervello reale” che, nella seconda meta del secolo XX, si cominciava a conoscere assai meglio di quanto non consentissero i rudimentali neuroni e i non più necessari assunti del fisicalismo, da cui la teoria aveva preso le mosse. I Rubinstein, gli Holt, i Gill e i Klein non fecero se non quello che deve fare ogni ricercatore scientifico e che Freud stesso al loro posto avrebbe forse fatto secondo l’ epistemologia e metodologia dichiarate nel 1915. Il concetto di energia psichica, - (che fa semplicemente il verso al concetto fisico di energia nella struttura logica e nella “funzione” teorica) - e il principio di costanza, sono il graspo che regge tutto il grappolo. Non potevano che tagliarlo come è necessario fare con qualunque ipotesi che si dimostri erronea. Proprio la loro vicenda, però, conferma che il problema era più profondo rispetto alle debolezze teoriche della strega in quanto profondamente inciso nelle sue fondamenta e nella difficoltà a coniugare le sue due anime meccanicista e mentalista. Pur stabilendo infatti la necessità di una riformulazione teorica, essi non passarono indenni tra Scilla e Cariddi. Ci fu chi come Rubinstein e Holt preferì lasciarsi abbracciare dalla Scilla riduzionista e chi come Gill e Klein sprofondò nella Cariddi mentalista.
Credo però che sia ingeneroso addebitare ai rapaportiani la mortificazione della strega. La falsificazione di una teoria non è disfatta né fallimento, ma semplice presa d’atto dei suoi assunti erronei (energia psichica) o del suo non rendere conto di nuovi dati resisi disponibili - basterebbe pensare alla differenza, che già negli anni sessanta era diventata evidente, tra il “bambino analitico” e quello “reale”! - o frutto dell’esaurimento della sua potenzialità euristica. Una teoria è una rete per pescare “pesci-verità” (Popper), ma, sopratutto nelle fasi iniziali e formative di una disciplina scientifica, giunge facilmente a un punto in cui altro non riesce a pescare se non i sottoprodotti di se stessa. E’ il momento di consegnarla alla storia e di darsi da fare per produrne una nuova che spieghi i vecchi dati dando ragione dei nuovi. Da questo punto di vista la “morte” di una teoria è altrettanto importante e creativa quanto la sua costruzione. Le teorie non sono dogmi. Non asseriscono “verità”. Sono strumenti per conoscere congetturalmente qualcosa di non conosciuto e di non immediatamente conoscibile. Al contrario delle teologie, poggiano sull’ignoranza, non sulla verità e, nel processo conoscitivo, nascono per morire. La fine gloriosa di una buona teoria è di morire partorendo una nuova più potente teoria. Alla teoria freudiana questa fine gloriosa è stata negata dal mondo psicoanalitico che, per non dimenticare il suo fondatore, - “il padre che non doveva morire” diceva Wallerstein, l’ “autorevolissimo presidente” - ha preferito, in nome di una malintesa fedeltà riverente, perdere se stessa, tradendo il compito e l’impresa di continuare a perseguire da apripista la costruzione della psicologia clinica come disciplina scientifica, che proprio il suo fondatore aveva avviato con l’ormai falsificata, ma organica ed euristicamente potente teoria. Il risultato è che oggi la psicoanalisi è una pratica clinica senza una teoria che la giustifichi e che ne promuova e guidi la ricerca e lo sviluppo. Inconscio, transfert, resistenza e difesa, promossi a teoria per decreto e volontà popolare, affondano, infatti, radici, tronco e rami nella carne e nel sangue, ormai improduttivi, della strega.
Il lavoro di Contardi è comunque apprezzabile (come è apprezzabile la coraggiosa impresa teorica di F. Riolo) non fosse altro perché si occupa di un problema vero al contrario dell’imperante, fastidioso, inutile clinicismo. Certo! Questi studi sarebbero stati assai più efficaci e utili 40 anni fa, ma allora non c’era chi li scrivesse e sopratutto chi li pubblicasse. Del resto, cantare fuori dal coro è cosa assai ardua ancora oggi.
SULL'ANALISI DEL CASO
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Testo presentato a Verona il 17. 10. 2015
All’inizio della mia attività professionale ero convinto che, per stare attentamente sul pezzo, dovessi con ogni cura tenere una sorta di aggiornato “registro del trattamento”in cui annotare diligentemente, seduta per seduta, ogni accadimento, parola, sogno, associazione del paziente. Avevo pochi pazienti, molto tempo, scarse sicurezze e tantissima energia, dunque, scrivevo, scrivevo e scrivevo, ma raramente avevo tempo e modo di leggere quanto avevo scritto. Forse, da qualche parte, ci sarà ancora quel brogliaccio di fogli fitti fitti di scrittura. A quel tempo ero troppo preoccupato della necessità di tenere a mente tutto e, conseguentemente, troppo occupato a scrivere! In realtà tutto quello scrivere serviva, più che altro, a tenermi al riparo dall’inevitabile ansia del principiante. Ci volle del tempo per rendermi conto che questa puntigliosa attività amanuense non era necessaria e che era meglio fidarsi semplicemente della memoria.
Ciò che serve per una buona e attenta attività clinica, da questo punto di vista eminentemente tecnico, è altra cosa: serve un’attenta, compiuta e progressiva analisi del caso e, dunque, è necessario acquisire questa competenza ed esercitarsi in questo compito. Nella mia attività di supervisione ho spesso potuto osservare che la lacuna maggiore lasciata dalla scuola di specializzazione nell’armamentario tecnico dei neo-diplomati è proprio una scarsa formazione, competenza, attenzione e motivazione a compiere l’analisi del caso. E’ una spiacevole conseguenza del modo in cui solitamente è trattata in classe la mole (spesso inutilmente esorbitante!) di materiale clinico offerta dagli insegnanti di tecnica, che finisce per privilegiare la singola situazione clinica invece che la visione più complessiva e l’analisi particolareggiata. La supervisione didattica, inoltre, può difficilmente colmare questa lacuna perché il supervisore si assume (o finisce comunque per accettare di assumere) il ruolo di colui che tiene il timone e governa la navigazione.
Non ho mai scritto nulla su questo punto né ho mai avuto modo di approfondire il problema a scopi illustrativi o didattici, - la mia esperienza didattica ha sempre riguardato l’ambito teorico o teorico-tecnico - posso quindi semplicemente attingere alla mia esperienza, cercando di mettere in parole ciò che la mia mente fa, quasi automaticamente, quando si trova innanzi al caso.
Mi preme precisare subito un punto: è necessario distinguere accuratamente l’analisi clinica del caso dallo studio teorico-clinico sul caso.
- L’analisi clinica del caso non ha finalità di studio o di ricerca teorico-scientifica e non deve averla. Ha una pura e semplice finalità terapeutica: serve a orientare il lavoro clinico, a stare sul pezzo e dentro al caso, a favorire l’assetto interno ottimale, oltre che a fungere da orientamento di massima nella scelta del materiale su cui intervenire e sul come intervenire. L’analisi clinica del caso serve cioè soltanto a “comprendere Maria”.
- L’analisi teorico-clinica sul caso ha, invece, una finalità del tutto differente e si ripropone, a partire dallo studio critico delle teorie esistenti e dall’esame del materiale clinico, di migliorare questo o quel punto di una teoria esistente o di giungere a definire e precisare la strumentazione concettuale o anche a disegnare un semplice concetto nell’intento di modificare un asserto teorico, di perseguire una sua differente e più precisa formulazione o - se si è in un momento di crisi o assenza di teoria come questo - di giungere a formulare ipotesi più ragionevoli rispetto a questo a quel nodo teorico o persino di giungere a una catena di ipotesi che portino a una teoria più definita. L’analisi teorico-clinica non serve a comprendere Maria ma a conoscere, concettualizzare e spiegare meglio i comportamenti e i vissuti di tutte le Marie.
E’necessario non confondere e non sovraporre questi due livelli d’indagine: il primo è eminentemente pratico, tutto attento alla singolarita del singolo caso e ha come scopo l’accuratezza e preoccupazione tecnica e professionale nel trattamento di quel singolo caso. Il secondo, invece, è specificamente conoscitivo e mira, dunque, non al singolo caso, ma alla generalità dei casi, è astratto invece che concreto, non si riferisce primo e per sé al vissuto di Maria, ma a quello della mente in generale, la mente di tutte le Marie e di tutti i Giacomi.
I due livelli di indagine hanno anche un differente rapporto con la teoria, con il pensare teorico e con l’ereditàteorica del passato.
Spesso si sente dire che il corretto atteggiamento terapeutico deve essere libero da filtri teorici, da precomprensione, memoria e desiderio e, a questo proposito, si cita volentieri Bion e si raccomanda una disposizione interna tesa a “vedere in maniera immediata ciò che è” e, parafrasando appunto Bion, si ripete spesso che “Bisogna essere liberi da comprensione, da memoria e da desiderio per liberare l’intuizione dalle opacità che la offuscano, per vedere le cose come sono e non come ci aspettiamo che siano, in un atteggiamento di sospensione e distacco critico”. Temo che l’aspirazione a questa “libertà” interna sia del tutto illusoria. In seduta così come nell’esame più a freddo del caso clinico, che ne siamo o no consapevoli - ed è meglio esserne consapevoli - non possiamo sottrarci all’azione pervasiva di tre filtri teorici:
- Il primo filtro è quello della teoria che ufficilmente diciamo di seguire, se riteniamo di averne una, ma, da questo punto di vista, anche “il non avere una teoria”- o “l’esplicita rinuncia a ogni teoria” è una teoria e un filtro, forse forse anzi il filtro più pericoloso, perché finisce per lasciare il terapista in preda alle sua teorie implicite;
- Il secondo è quello dell’eredità storica dei vari strati di teoria che ci hanno preceduto, che si sono sedimentati come una sorta di “conoscenza ovvia”, la quale facilmente ai nostri occhi può diventare “ciò che effettivamente è” o “le cose come sono”;
- Il terzo filtro, infine, è quello della nostra teoria più privata e personale che anzitutto modella già il racconto quotidiano della nostra esperienza e del nostro vissuto, ma che silenziosamente e nascostamente veste di soggettivo quanto ci appare macroscopicamnente oggettivo.
Sia che abbiamo una teoria consapevolmente accettata, con i vati gradi di sicurezza possibile, sia che ci riferiamo più genericamente, date le condizioni del nostro tempo, a una concezione che si riferisce piuttosto a una costellazione di teorie differenti stratificate nella nostra memoria culturale e scientifica, nell’analisi del caso, è necessario un franco atteggiamento critico per contrastare la precomprensione teorica, che deriva da queste concezioni e conoscenze la cui solidità è quantomeno dubbia e datata.
Nell’indagine teorico-clinica sul caso, invece, il fuoco dell’attenzione è proprio sulla teoria sia nel senso degli asserti, che ci sembrano insufficienti e da criticare sia nel senso delle nuove formulazioni, che cerchiamo di vagliare per verificare se e come rendano conto del materiale clinico in esame.
Alla luce di quanto ho appena detto, distinguiamo, dunque, l’analisi clinica del caso dall’indagine teorico-clinica, in cui per esempio cerchiamo di verificare l’utilità di un concetto, (come potrebbe essere il concetto di vincolo), nella spiegazione del comportamento e del vissuto di Maria.
Per condurre un’analisi clinica del caso, di qualunque caso, è necessario:
- disporre scrupolosamente sul tavolo tutti i dati di cui disponiamo;
- riflettere sulle loro relazioni e sulla loro congruenza o incongruenza;
- osservare se in questo mosaico ancora informe di dati esistono lacune cioè se, a riguardo di punti importanti, manchiamo, per un motivo o per un altro, di informazioni;
- verificare se è possibile accorpare tutti i dati secondo un disegno coerente o, come è più probabile, per gruppi di dati che mostrano coerenza e parentela, osservando invece l’incoerenza tra gruppo e gruppo;
- Vedere se è possibile formulate un’ipotesi generale o parziale o se è possibile formulare ipotesi tra loro alternative;
- Avere a disposizione una bella riserva di punti interrogativi, che potremo e dovremo collocare, convenientemente e prudentemente, a ogni passo di queste operazioni successive.
a. I dati. Per poter disporre sul tavolo tutti i dati di cui disponiamo, è necessario avere presente nel modo più chiaro e preciso possibile la storia del soggetto. Concretamente bisogna disporre di una buona narrazione complessiva, che, in genere si può acquisire nei colloqui preliminari, cui occorrerà man mano aggiungere le acquisizioni successive. Per imparare ed esercitarsi all’inizio può essere utile scrivere ed è quello che in realtà si fa quando si deve portare un caso in supervisione. Dopo un certo allenamento però può essere sufficiente servirsi semplicemente di un foglio di carta in cui disporre per accenni i dati significativi servendosi di segni grafici per fissare le relazioni (frecce, parentesi, connessioni, frecce oppositive…). Se si tratta dell’analisi iniziale, questo sarà sufficiente. Se, invece, si tratta di ripresa di analisi del caso nel corso della terapia, sarà anche necessario tenere, per così dire su un altro tavolo, i dati relativi alla storia della terapia e i dati relativi alle caratteristiche della relazione terapeutica, osservando congruenze e incongruenze rispetto ai dati generali della storia del soggetto. Nel laboratorio di Verona in cui abbiamo studiato un singolo caso per quattro anni circa abbiamo continuamente confrontato i dati generali della storia di S e quelli man mano emergenti nella sequenza delle sedute, con le caratteristiche della relazione terapeutica e con quanto andava concretamente accadendo nella relazione.
Un ruolo particolare nella disposizione dei dati devono trovare:
- Traumi (e in alcuni casi di nevrosi più specificamente traumatica il trauma dovrà avere una collocazione focale!)
- Sequenze traumatiche
- Punti di svolta sia indicati dal paziente sia valutati o inferiti dal T.
- Vincoli sia superficiali sia, se è possibile, sottostanti.
b. Tono edonico e modulazione del vissuto
Un elemento assai importante da collocare come sfondo di questa costellazione di dati è la valutazione del tono generale dell’umore del paziente sia nel vissuto complessivo e globale (S si sente complessivamente gioiosa? Allegra? Serena? Triste? Depressa? Ansiosa? Insicura? In perenne conflitto?...) sia in rapporto a determinati accadimenti e quali. La sua valutazione si riferisce all’intero arco di vita oppure ci sono state delle differenze e, supponiamo, a uno stato dell’umore sereno, che è stato stabile per un arco temporale ne è seguito un altro che è stato stabile per un successivo arco temporale? Quando si sono verificati tali eventuali cambiamenti? In rapporto a quali avvenimenti o a quali modificazioni nello scenario naturale di vita?
A partire dallo stato generale dell’umore, S è capace di sperimentare stati emozionali positivi? Di apprezzarli? Di perseguirli attivamente? In quali ambiti? (valutazione della capacità edonica) oppure le esperienze tendono ad avere un colore e un sapore per lo più neutro e incolore, noiosamente insipido e poco soddisfacente? In questo caso S quanto e come è in grado di attivarsi per perseguire stati piacevoli?
Ancora a partire dallo stato generale dell’umore, nei casi di pesanti cadute in negativo o di possibili cadute in negativo S è capace di agire efficacemente ed attivamente per modulare tale stato negativo? in che modo? attrraverso quali attività? In questi casi, in che modo sa utilizzare la funzione riflessiva? instaurando un dialogo interno? mediante un esame di realtà? relativizzando? o cerca semplicemente di uscire dall’impiccio girando pagina o cercando un altro chiodo con cui scacciare il precedente?
c. Congruenza e incongruenza. E’ragionevole pensare che una persona che chiede una terapia abbia un vissuto di sofferenza relativo a problemi che riguarderanno la gestione di un qualche campo della sua esperienza personale, relazionale, lavorativa e che queste sofferenze rimandino a lacune, fratture, conflitti nella sua organizzazione e nel suo vissuto più o meno consapevole. Si può ragionevolmente presumere che indicatori importanti di tali fratture, lacune e conflitti siano le varie tipologie di congruenza\incongruenza che possiamo rilevare nella sequenza delle sue vicende e tra i dati e gruppi di dati che possiamo isolare nella nostra collezione.
Si possono distinguere diverse tipologie di congruenze\incongruenze:
- Congruenze\incongruenze interne alla “storia”riguardanti eventi, fatti e scelte del soggetto.
- Congruenze\incongruenze tra narrazione dei fatti e narrazione del vissuto
- Congruenze\incongruenze (denunciate o inferite dal T) tra gruppi di dati
- Congruenze\incongruenze tra “narrazione della storia”e accadimenti nella terapia
- Congruenze\incongruenze tra storia, accadimenti in terapia e relazione terapeutica.
d. I grandi parametri della vita psicologica.
La collezione dei dati, la tonalità di fondo dell’umore e la sua modulazione attiva o no da parte di S e infine questa prima organizzazione in termini di coerenza\incoerenza, potranno consentire una prima visione più sintetica da cui si potrà procedere con un ulteriore e più astratto livello di analisi che potrà essere realizzato, leggendo la storia del caso i dati e le varie tipologie di congruenze\incongruenze rilevate alla luce dei grandi parametri generali della vita psicologica e cioè:
- Attività-passività
- Interno - esterno
- Autonomia - dipendenza
- Autostima –autodisistima
- Depressione - euforia
e. Un disegno coerente?
Compiuto questo lavoro analitico potrebbe accadere, e in una parcentuale significativa di casi di più semplice lettura effettivamente accade, che si disegni spontaneamente un disegno verosimile (o verosimilmente coerente) del profilo di personalità in senso sia sincronico e relativo, dunque, all’organizzazione e al funzionamento attuale, sia in senso diacronico e relativo, dunque, alla linea di sviluppo, al “come S è arrivata a funzionare così”. Si dovrà comunque vagliare se questa linearità sia effettiva o sia soltanto frutto di un’analisi troppo superficiale e, dunque, sia dovuta alla quantità insufficiente di dati o a una lettura troppo “teorica”e semplificante. Se i dati sisponibili sono ragionevolmente completi e significativi - in virtù di una maggior trasparenza o di una maggiore capacità di autolettura e di narrazione del paziente e comunque di una più approfondita anamnesi - forse più che un unico e lineare profilo ipotetico si potranno invece disegnare due o tre possibilità di profilo la cui verosimiglianza e i possibili intrecci si dovranno vagliare con il procedere del lavoro.
In altri casi, anche dopo mesi di lavoro, potrebbe invece accadere che i dati restino disordinati ed eterogenei e non si riesca a far emergere un qualche disegno lineare. Sono i casi più complessi e problematici.
f. Ipotesi descrittiva (provvisoria)
Il passo successivo è quello di provarsi a formulare un’ipotesi descrittiva, che dovrà sempre essere considerata provvisoria, che potrà suggerire anche un’indicazione per l’azione terapeutica sia in termini di assetto interno del terapista sia anche in senso operativo nella scelta sequenziale del materiale su cui lavorare e sul modo in cui lavorarci.
La riserva dei punti interrogativi dovrà essere convenientemente e prudentemente utilizzata a ogni passo di queste operazioni successive.
UNO STRUMENTO DI STUDIO: LEGGENDO FREUD: nascita, costruzione e sviluppo della teoria psicoanalitica.
- Dettagli
- Scritto da Gian Paolo Scano
E’ stato appena pubblicato un libretto che ha un certificato di nascita (e una storia!) particolare: pur essendo neonato, ha già circa 40 anni!
Per un ventennio, tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’90, a Roma e successivamente a Brescia, ho tenuto un corso triennale sulla struttura e sviluppo della teoria psicoanalitica, che poggiava sulla lettura diretta delle opere di S. Freud. Il corso si riproponeva di introdurre gli allievi a una conoscenza non superficiale della teoria, incoraggiandoli alla lettura progressiva del corpus freudiano.
Nella mia lunga attività didattica ho sempre scritto in modo compiuto le lezioni. Quelle di quel corso erano vergate su dei semplici fogli A4, con grafia minuta, (consentita da una bic punta fine rigorosamente nera!), successivamente riversati in un file, grazie a un primitivo programma di scrittura, antenato di Word, che si chiamava, credo, Wordstar.
Spesso allievi, amici e compagni di viaggio mi hanno invitato a rispolverare quei vecchi appunti, chiedendomi di renderli disponibili come strumento di studio. Altre priorità me ne hanno sempre distolto. Oggi, probabilmente in un momento non così opportuno, ho avuto modo di accondiscendere alla loro richiesta senza troppa fatica.
Nato dalla didattica e per la didattica, il testo può essere utile come maneggevole filo d’Arianna per chi desideri entrare nell’orizzonte della psicoanalisi, passando per la porta principale della lettura delle opere freudiane o anche, più semplicemente, servendosi di una puntuale, sintetica ricostruzione del progressivo emergere dei concetti, dei nessi e degli snodi teorici nella concreta parabola storica della ricerca freudiana.
Il testo ripercorre la fase costruttiva della teoria dalla formazione e dalle prime pubblicazioni del giovane Freud sino alla formulazione già adulta della teoria nel 1899 (Interpretazione dei sogni) e nel 1905 (Tre saggi sulla teoria sessuale). Particolare attenzione, in un intermezzo storico-critico, è dedicata all’intera vicenda del narcisismo che, in un momento di grave crisi teorica, sembrava promettere una riscrittura rivoluzionaria della teoria. Rivoluzione che, come è noto, non avvenne. La seconda parte ricostruisce, invece, l’effettivo processo di riformulazione teorica nei termini della teoria tripartita (Es, Io, Super-io) sino alla nuova teoria dell’angoscia e agli ultimi contributi.
In coda al libretto propongo anche quella che, a mio giudizio, può essere ritenuta la bibliografia essenziale per lo studio della teoria freudiana, per quanto attiene alla sua formazione, sviluppo e struttura, ma con un occhio attento anche allo stato attuale della teoria e alle sue prospettive future.
Il punto di vista prescelto è prevalentemente storico, salvo che nella trattazione dei narcisismo, che si avvale più esplicitamente di un punto di vista anche storico-critico. La scelta di questo punto di vista più semplice e la limitazione imposta alle argomentazioni critiche, derivano da ragioni che erano, al tempo, squisitamente didattiche, ma che tornano buone anche in questa riproposizione, che resta lineare e non appesantita da eccessive analisi critiche.
Il testo, a parte qualche piccolo aggiustamento formale, è quello originario delle vecchie cartelle manoscritte. Pubblicandolo, spero di fare cosa gradita ai miei molti ex-allievi e cosa utile a chi volesse addentrarsi nelle viscere della teoria psicoanalitica con sano atteggiamento storico-critico e teorico-critico.
Il libro è pubblicato secondo la formula Book on demand e può essere facilmente ottenuto richiedendolo direttamente on line all’editore, ma può anche essere richiesto ai principali bookstores on line, alle librerie o magari anche al giornalaio sotto casa, che voglia essere gentile.
Gian Paolo Scano, (2020) LEGGENDO FREUD: nascita costruzione e sviluppo della teoria psicoanalitica, Susil Edizioni. Il link per la richiesta diretta all'editore è: https://susiledizioni.com/libri-ed-ebook/libri-pubblicati/anno-2020/leggendo_freud--507.html
LIVELLI SINCRONICI DI EMERGENZA DEL SIGNIFICATO
- Dettagli
- Scritto da Gian Paolo Scano
Cosa è “significato”. Come, quando e dove il significato emerge nell’interazione è tema cruciale e complesso. Fin dai primi anni ottanta, a partire dalla falsificazione della metapsicologia freudiana, era possibile rendersi conto delle aporie della concezione classica del significato e della debolezza del “teorema conoscitivo” (significato inconscio ➣interpretazione ➣ insight). In assenza di un solido panorama teorico alternativo era invece assai difficile delineare una differente e innovativa impostazione del problema.
Fu a partire dall’autunno del 2009 e, successivamente, negli ultimi anni di attività del Laboratorio di Brescia che, il tema del significato e dei “livelli di emergenza del significato” divenne oggetto di studio e di riflessione come sviluppo, quasi spontaneo, della ricerca compiuta nell’arco di venti anni che, partendo dalle macerie della metapsicologia, giunse a poter affrontare, in termini nuovi, i temi dell’inconscio, della coscienza e dell’intenzionalità inconscia. Già in quel contesto nacque l’idea di costruire una griglia o tabella, che potesse fungere, da interfaccia tra la teoria e la clinica, come strumento operativo per il terapeuta sia in seduta (una specie di mappa o di bussola), sia nell’analisi a tavolino della seduta o del caso (per esempio, quando si desideri “fare il punto”).
Ho sintetizzato le linee essenziali e le risultanze di questo lavoro ventennale in La mente del corpo, (2015), cui devo rimandare per la prospettiva teorica generale e per l’ossatura teorico-concettuale che consente di affrontare in modo nuovo la problematica del significato. In quel lavoro il tema del significato non viene affrontato direttamente, ma è presente tra le righe nel disegno della prospettiva generale e dell’ossatura teorico-concettuale che consente di impostarne la problematica in modo alternativo rispetto alle concezioni tradizionali. Su questo tema (e su quello strettamente connesso del concetto di vincolo) lavora, invece, da qualche anno il Laboratorio di Verona. In un testo dal titolo “Sul significato”, postato in quattro parti in questo blog, si può trovare una introduzione generale al problema del significato e, in un ulteriore testo, anche una introduzione al concetto di vincolo, che per molti versi èl’altra faccia del significato.
In queste pagine mi riprometto di affrontare, invece, specificamente il tema dei livelli di emergenza del significato in vista dell’obiettivo di disegnare più avanti anche una sintetica e chiara tabella operativa.
1. ASSUNTI GENERALI
Prima di giungere a descrivere i livelli di emergenza del significato, è necessario precisare l’assunto generale di partenza, che pone l’interazione tra T(erapista) e P(aziente), come oggetto formale della disciplina.
Una psicoterapia - una seduta, una serie di sedute, una intera terapia, - non è l’azione lineare di un soggetto T su un oggetto P, come voleva l’impostazione oggettualista freudiana, ma è un flusso di interazioni e narrazioni in cui un-soggetto-osservato-osserva-un-soggetto-osservato-che-osserva. Da questo punto di vista il significato non può essere inteso come qualcosa che esiste in sé "a prescindere", nel modo in cui, per esempio, lo considerava Freud quando si riferiva al significato di un sogno o quando esemplificava con l’analogia archeologica il lavoro di scavo di una terapia. Il significato non è un cioccolatino avvolto dalla carta stagnola delle parole o nascosto nell’oscurità di un non dicibile inconscio, ma emerge e si costruisce nel processo di interazione e narrazione ed è, dunque, funzione, anzitutto, della delimitazione operata dai due interlocutori in questo flusso, cioè del modo in cui ognuno dei partecipanti seleziona le singole “frasi” dell’interazione, circoscrivendola con la sua personale punteggiatura. Ne consegue che la fattibilità stessa di una descrizione dei livelli di emergenza del significato poggia sulla possibilità di identificare i vari livelli di criteri, che governano questa selezione e questa punteggiatura.
Definire una serie di livelli di significato nel flusso delle interazioni e narrazioni non significa però stabilire che nell’evento, nel vissuto o nella “frase interattiva” in esame, ci siano una serie di cassetti virtuali contenenenti ciascuno il “suo”significato risposto ed esistente in sé. Ogni significato implica un contesto. Ogni contesto implica un punto di vista. Ogni punto di vista implica un osservatore che, da quel punto di vista, costruisce il contesto. In questo senso il “significato” è sempre la risposta a una domanda posta da un soggetto, che può essere il soggetto del vissuto e protagonista dell’evento o un ulteriore soggetto che osserva.
Questo assunto generale, che costringe a intendere il significato come emergente nel flusso delle interazioni, ne implica un secondo che riguarda la natura dell’interazione intersoggettiva, in cui occorre distinguere tra “interazione”e “metainterazione”. Per questa basilare distinzione devo rimandare a L’interazione come oggetto formale della psicoanalisi, 2006, (Internet Ed. www.psychomedia.it/pm/indther/psanndx1.htm). Qui sarà sufficiente dire che la distinzione tra autonomia ed eteronomia e le caratteristiche della soggettualità umana, rendono necessario distinguere in ogni transazione terapeutica, due differenti posizioni e punti di vista, che delimitano due distinti domini e due differenti campi di variabili, che possiamo indicare, provvisoriamente, con i termini interazione e meta-interazione (Scano, 2000, 2006a) o come interazione narrante e interazione narrata (Scano, 2013)
Il punto di vista interattivo e il conseguente dominio dell’interazione, delimitato dal punto di vista, indicano la totalità delle interazioni, che avvengono nella stanza di consultazione, a prescindere da ogni descrizione, racconto e categorizzazione compiute da un osservatore esterno o da ciascuno dei due soggetti narranti.. L’interazione comprende, quindi, sia l’azione di elementari componenti del sistema (come potrebbe essere uno schema neuronale attivato in P o in T) sia l’azione di sottosistemi molari (come per esempio l’intero sistema nervoso di P e di T), sia le azioni del tutto soggettive, intenzionali e volontarie, comprese quelle specificamente adottate come tecniche a un qualunque livello, sino a comprendere l’azione complessiva dei due organismi cioè dei due sottosistemi complessi P e T nella loro globalità, organizzazione e storia. L’interazione assunta a questo livello, indica la totalitàmdei vincoli e delle possibilità del sistema quale deriva dall’interazione di tutti gli elementi del sistema e di ciascuno dei sottosistemi.
Esprimendo la globalità dell’azione del sistema T\P e dei due sottosistemi soggettuali, l’interazione coincide con la natura essenzialmente intersoggettiva della relazione terapeutica ed è espressione dell’autonomia del sistema e dell’autonomia dell’azione dei sottosistemi organismici. Essa non è caratteristica distintiva della situazione e del setting terapeutico, ma è piuttosto la marca distintiva di ogni transazione intersoggettiva, che indica la necessità di includere l’interazione terapeutica nella classe piùampia delle interazioni tra soggetti.
Il Punto di vista meta-interattivo” e “dominio meta-interattivo” indicano, invece, l’attività complessa del sistema T\P come derivante dall’interazione di due organismi soggettuali, che si relazionano, per uno scopo e in un quadro situazionale definito, mediante l’azione di un Io della mente e, dunque, tramite l’azione di una rappresentazione narrata, di contesti, canovacci, mappe, trame e teorie, sulla base di intenzioni, scopi, progetti e di strategie e di giochi adottati per conseguirli. Se l’interazione apparenta la psicoterapia alle altre relazioni umane, facendone un membro della stessa classe, sarà piuttosto la meta-interazione a distinguerla e delimitarla nella sua specificità e a differenziarla dalle altre relazioni umane, grazie all’utilizzazione sistematica e controllata del livello meta-interattivo, nel quadro delle regole vincolanti del setting. Tale livello, in cui si configura la posizione meta-interattiva del terapista, attiene specificamente ai motivi, che hanno determinato l’interazione terapeutica e agli scopi, che essa si ripropone di conseguire (la risoluzione del problema del soggetto\paziente); poggia sulle conoscenze necessarie alla corretta impostazione del problema (competenze teoriche e teorico-cliniche del terapista); si traduce nella progettazione e messa in atto di adeguate strategie tecniche di soluzione e nel controllo dell’andamento del processo di soluzione. In ultima analisi, la meta-interazione coincide con l’ambito tradizionale della tecnica e implica un dislocamento a un livello meta, rispetto all’interazione, una osservazione, un controllo e una direzione da un punto di vista specifico, quello del problema, della sua soluzione e di quanto è necessario operare a questo scopo.
La proprietà fondamentale dell’interazione è che essa avviene e non può essere cancellata o modificata dalla meta-interazione, che la può tradire o falsare, ma non rendere non avvenuta, contemporaneamente, però, essa non può essere colta e raccontata, a se stessi o ad un altro, se non tramite una operazione meta-interattiva. L’elemento essenziale della meta-interazione, invece, è che essa implica sempre e comunque un’interazione nel senso che anche un’interpretazione, al di là del contenuto, interviene nel contesto come azione con suoi propri significati, che non sono necessariamente quelli previsti o voluti dall’intenzionalità dell’interpretante. Di conseguenza nel corso dell’esercizio dell’attività meta-interattiva o tecnica, il terapista, inevitabilmente e di fatto, interagisce e in tal modo puòconfermare o disconfermare le aspettative e i sistemi di attribuzione di significato del paziente, fornendogli, magari, prove ulteriori per le sue teorie proprio mentre si affatica a smontarle o, al contrario, può introdurre efficaci perturbazioni, che potrebbero permettergli di modificarle.
A partire da questo assunto si spiega che, nel redigere la tabella dei livelli di emergenza del significato, ci si rende facilmente conto che essa ha senso soltanto dal punto di vista meta-interattivo, perchè il significato emerge solo da una narrazione, dato che l’interazione in sè non può essere colta e raccontata (a se stessi o a un altro) se non tramite una operazione meta-interattiva. A fronte di ciò, tuttavia, si deve comunque rimarcare che l’effettiva marcatura emozionale (di conferma o disconferma dell’esperienza emozionale attesa) avviene a livello interattivo e non puòessere cancellata o modificata dalla meta-interazione, (che la può tradire o falsare, ma non rendere non avvenuta).
Ciò consente di precisare che nell’impostazione del problema del significato bisogna avere ben chiara la distinzione tra il piano dei processi e il piano delle narrazioni.
Il piano dei processi è il piano effettivamente causativo cioè quello in cui le marcature emozionali effettivamente determinano e legano i vincoli sul piano fattuale. Questo piano non è obbiettivamente raggiungibile in sè. E’, almeno per il momento e allo stato attuale delle conoscenze, una sorta di noumeno, su cui si possono soltanto avanzare congetture e ipotesi. Sul piano generale, è, dunque, il piano delle teorie, mentre sul piano del singolo paziente è il campo delle ipotesi e congetture concrete relative alla formazione degli effettivi vincoli di quel preciso paziente alla luce delle sue concrete narrazioni e degli assunti teorici resi disponibili da quelle teorie;
Il piano delle narrazioni è invece quello in cui effettivamente emergono e possono emergere i significati ed èdunque il piano, sempre meta-interattivo, in cui è possibile interrogarci sui livelli di emergenza del significato.
2. LIVELLI DI EMERGENZA DEL SIGNIFICATO
M è al quarto anno di una terapia, che ha intrapreso per mettere fine all’inconcludenza della sua vita sentimentale e riuscire ad avere un compagno, un figlio, una famiglia. Nella seduta precedente a quella, di cui intendo parlare, è successa una cosa strana: ha preso il solito treno, con cui viene regolarmente in seduta, nella direzione opposta, per cui si è trovata ad andare verso Civitavecchia piuttosto che verso il mio studio - (per la verità, così intese l’evento il T a partire dalla telefonata di M. In realtà M, non prese il treno nella direzione sbagliata ma, semplicemente saltò la fermata e quando se ne accorse vide che stava proseguendo per Civitavecchia!).
M non sa spiegare l’errore, dice che ha pianto su quel treno, rendendosi conto della cosa e rendendosi conto, che “stava male” mentre, da mesi, sottolinea che “sta bene”. Aggiunge che lei sa perché sta male, ma ha fatto un sogno e prima deve raccontarlo. Giovedì è stata a uno spettacolo teatrale incentrato su cinque “donne”, che partecipano alla festa di compleanno di una di loro. Sono tutte sui 35 anni, eccetto una che è sui 27. C’è la bigotta, quella che ha sbagliato “uomo” e sta divorziando, la cinica che “è tutto inutile e tanto vale scopare in giro”, la depressa e la giovane isterica che “è tutta colpa della madre”…“a parte la “bigotta”…in tutte le altre, c’era qualcosa, in cui riconoscermi. La notte sogno di stare a una festa. C’è mia madre ed io le urlo con tutta la rabbia possibile che è colpa sua, che è tutta colpa sua, perché non mi ha mai voluto vedere”. M quindi si sofferma sul “non vedere”della madre, che la rimprovera di “tener chiusa la porta agli altri” come del resto, dice M, fa anche il T.
Per cogliere i livelli di emergenza del significato in questo frammento di interazione o in qualunque altro frammento di qualunque terapia, si deve osservare che esso può essere contestualizzato sia dal punto di vista sincronico, determinando i livelli di significato sincronici al contesto attuale, sia dal punto di vista diacronico. Non è diffficile distinguere i due campi di significati. I livelli sincronici di significato riguardano l’emergenza del significato di una singola frase dell’interazione nel qui e ora della seduta, mentre i livelli diacronici riguardano lo storia complessiva dell’interazione. I livelli “sincronici” di significato riguardano sempre la narrazione qui e ora, ma le narrazioni “qui e ora” costruiscono una storia e dunque i significati diacronici riguardano un altro tipo di narrazione e cioè la narrazione della storia costruita dalle narrazioni nel qui e ora. Occorre però considerare che i livelli diacronici agiscono continuamente anche a riguardo dell’emergenza del significato a livello sincronico.
“Sincronico” e “diacronico” sono specificazioni astratte: Concretamente, per sincronico si puòsemplicemente intendere: punto di vista della frase; per diacronico: punto di vista della storia.
3. LIVELLI SINCRONICI DI SIGNIFICATO
Procedendo dal più semplice al più complesso si possono individuare quattro livelli sincronici di significato che si possono contraddistinguere come conversazionale, tecnico-clinico, soggettuale molare e soggettuale molecolare.
3.1 Livello Conversazionale.
Nella vignetta terapeutica viene riferito un evento, si parla di uno spettacolo teatrale e viene raccontato un sogno, che introduce delle comunicazioni relative al rapporto con la madre e ai problemi relazionali di M. Al livello più elementare, tutto ciòmnon si differenzia da una “conversazione” tra due soggetti, anche se si tratta di una conversazione impegnata, intima, senza limiti precisi a riguardo dell’apertura, dell’estensione e della profondità è, anzi, una conversazione che esclude attivamente tali limiti (setting). A questo livello elementare, il significato emerge come in una qualunque conversazione tra soggetti, in cui la normale competenza linguistica assicura una comprensione di massima e la possibilità di correggere equivoci ed errori di comprensione.
La comprensione, a questo livello, è funzione della reciproca capacità di capire il “significato degli asserti” e, concretamente, quindi, della competenza linguistica dei due parlanti, che, in concreto, dipende:
- da un dizionario denotativo, relativamente, comune;
- da una congruenza nella disposizione connotativa di base, e, dunque dalla condivisione dei contesti basilari (famiglia, asilo, lingua madre, elementari, scuola di base, gruppi giovanili, lavoro…) e delle esperienze fondamentali (esperienza di figlio, fratello, scolaro, amico, studente, cittadino…)
- da una relativa assenza di vincoli troppo generalizzati e rigidi, che possono restringere la comprensione a un punto di vista radicalmente limitante.
Una marcata discrepanza a uno qualunque di questi livelli, (diversa lingua madre, diversa nazione di appartenenza, troppo marcata differenza culturale, troppo marcata differenza sociale…), rende più probabile sia la comparsa di buchi neri nel processo di comprensione sia l’insorgenza di “equivoci” (non necessariamente espliciti), oltre a rendere più difficile la possibilità di correggere le incomprensioni. In particolare, l’azione di questi fattori potrebbe determinare, in connessione con la presenza di particolari strutture psicopatologiche, una configurazione rigida di vincoli tale da restringere, in modo assai limitante, la comprensione sia del paziente sia, per motivi di ordine differente, anche del terapista.
3.2 Livello Tecnico-clinico
Nell’interazione tra M e T, però, il significato, pur poggiando sulla comprensione linguistica, non si limita a quest’ultima, ma riguarda, piuttosto, la comprensione degli asserti nel contesto della cura e, dunque, la loro comprensione, in rapporto agli scopi, ai ruoli e alle differenti competenze e conoscenze specifiche dei due attori. In questo caso, l’errore a riguardo del treno, il sogno, le comunicazioni attinenti alla madre hanno un significato che è funzione della relazione di questi elementi con un qualche aspetto, elemento o implicazione del problema di M, letto a partire da un quadro di conoscenze teoriche e tecniche; mentre per M il significato è funzione del rapporto tra queste comunicazioni e il raggiungimento degli obiettivi della cura a partire dal quadro delle conoscenze e aspettative di M.
Il significato dell’errore nella direzione del treno, della comunicazione riguardo allo stare male, del sogno, degli asserti riguardo alla madre, emerge (per T) dalla sua competenza e, in concreto, dalla sua galleria d’interpretanti, mentre la sua affidabilità dipende dalla ricchezza e precisione della sua enciclopedia d’interpretanti e, dunque, dalla sua preparazione teorica e tecnica, dalla precisione e solidità delle sue teorie e dall’operatività delle sue conoscenze tecniche. (Per le nozioni di connotazione, di interpretante e di semiosi illimitata cfr. Sul significato IV, in questo blog). Per il P, invece, il significato emerge, primo e per sé, dalla sua valutazione e comprensione degli asserti e comportamenti, sia propri sia di T, rispetto alle sue teorie e aspettative riguardo alla cura e dalla chiarezza della distinzione dei ruoli e dei rispettivi diritti e doveri, (che dovrebbero essere garantiti dalla chiarezza e stabilità del setting).
A questo livello, dunque, “significato” non è il semplice significato linguistico di un asserto, ma la sua relazione o implicazione riguardo a qualcuno degli aspetti connessi al problema da risolvere. Così un asserto di P, il cui significato linguistico potrebbe essere: “Ho il sospetto che Mario ce l’abbia con me”, acquisterebbe il suo ulteriore significato in ragione della rilevanza dell’asserto a riguardo di una possibile caratteristica paranoica di P. Almeno teoricamente, questo secondo livello di significato èpresente in ogni asserto di P e di T e riguarda, dunque, il significato di un sogno, di un sintomo, di un collegamento, di un’azione, di un tratto di carattere, di un’abitudine, di un lapsus, di una scelta, di un’organizzazione di vita…Nel caso dell’errore del treno, il significato emerge dalle triangolazioni che il T opera a partire dalle sue teorie psicopatologiche e cliniche, che considereranno l’errore di M come un sintomo, per esempio, come una fuga difensiva.
Questo secondo ordine di significati, che è specifico della conversazione terapeutica, in quanto interazione terapeutica, clinica e professionale, non è intrinseco all’asserto, ma emerge, nel caso di T, in ragione di un “interpretante”, tratto dalle conoscenze teoriche e cliniche del terapista, che elicita un ulteriore livello di senso, inserendo l’asserto di P in un contesto teorico-tecnico. Nel caso di Maria, invece, l’interpretante è tratto dalle sue teorie, esplicite o implicite, riguardo all’intelligenza del suo problema e alla sua concezione (con le conseguenti aspettative) riguardo alla cura. Una certa classe d’interpretanti, spesso del tutto impliciti, utilizzati da P, sono, come vedremo, in genere, di natura assai differente rispetto a quelli utilizzati da T.
3.3 Livello soggettuale (tradizionalmente dell’intenzionalità inconscia)
M, viaggiando verso Civitavecchia, invece che verso lo studio del dottore, compie un’azione, che contraddice le sue intenzioni esplicite, quando se ne accorge piange, si rende conto di stare male e telefona al terapista. Successivamente, in seduta, connette oscuramente quest’azione alla rappresentazione teatrale e al sogno e tutti questi elementi al suo star male, coinvolgendo sia la madre sia il terapista.
In questa serie di narrazioni, comportamenti e vissuti, emerge un terzo livello di significato, che corrisponde a quello tradizionalmente indicato come “significato inconscio”, che, nella concezione classica, si configurava come un “motivo” inconsapevole, determinato da un desiderio o fantasia di desiderio (o di difesa) ed era spiegato teoricamente e utilizzato clinicamente, come transfert, difesa e resistenza. La teoria classica e le sue varie declinazioni poggiano, infatti, sul presupposto di un’intenzionalità inconscia e inferiscono che alla radice di una azione, comunicazione o comportamento, intenzionalmente inconsapevoli, ci sia una “teoria”, una “fantasia” o uno “scopo”, in qualche modo, inconsci e non dichiarati, che sono da considerare la “causa” del comportamento in esame. Questa spiegazione ci è così familiare, da essere considerata ovvia o scontata, tanto che è difficile rendersi conto delle sue difficoltà logiche, delle sue implicazioni mentalistiche e oggettualistiche e della ingiustificata pre-assunzione linguistica, che essa inevitabilmente attribuisce alle nozioni di desiderio e di fantasia inconscia.
Le ragioni che inducono a considerare inaccettabile questa concezione dell’intenzionalità inconscia e i concetti sottostanti di desiderio, fantasia e scopo inconsci, sono stati esposti più volte altrove e non conta tornarci (cfr. Scano, 2015). Il fatto, però, che questa spiegazione sia da rifiutare, in quanto implica l’intera impalcatura metapsicologica, non significa tuttavia negare realtàe importanza al campo di significati tradizionalmente indicati sotto il cartello dell’intenzionalità inconscia. E’venuta meno la spiegazione, ma resta il problema. Si tratta semplicemente di trovare spiegazioni logicamente coerenti e congetture più accettabili a riguardo dei processi che inducono Maria ad andare verso Civitavecchia invece che allo studio di T.
Questo livello di significazione “inconscia” può essere inteso e spiegato, più semplicemente, come un caso particolare del processo di semiosi illimitata a partire da una classe d’interpretanti, determinati dalle connotazioni idiosincratiche di un singolo soggetto, che risultano fissate e indotte da una codifica personale e singolare delle sue esperienze pregresse. Tale campo non deve necessariamente essere concepito come un “deposito” prefissato, precostituito, e deliberatamente precluso, rimosso o scisso in una qualche segreta della mente, ma piuttosto come “emergente” nel consueto processo di significazione, a causa dell’attivazione di una classe particolare di “interpretanti”. Si può dare un nome preciso a queste “connotazioni idiosincratiche del soggetto: sono i suoi vincoli. Possiamo, dunque, indicare un terzo livello di emergenza del significato, (corrispondente alla tradizionale “intenzionalitàinconscia”), in cui il significato emerge per l’azione di quella particolare classe di interpretanti costituita dai vincoli e dalla rete dei vincoli del soggetto. A questo livello, il significato, in senso stretto, è l’emozione vincolata allo stimolo in entrata che determina un’azione o preclude un’azione; in senso più allargato, è lo schema anticipatorio emozione-azione.
Utilizziamo il termine “vincolo” per indicare qualunque nesso fisso, stabile e persistente nel tempo che si crea tra un elemento somatico-valoriale (dolore, piacere, emozione, emozione derivata, sentimento) e un elemento simbolico-rappresentazionale (immagine, simbolo, configurazione, idea...). Tale nesso, una volta stabilito e fissato, limita il ventaglio delle azioni possibili del soggetto o può anche prescrivere o inibire una sua specifica azione. Assumiamo, dunque, che il vissuto delle emozioni, del dolore e del piacere porti alla costruzione di schemi anticipatori di emozione-azione, somaticamente marcati, che hanno struttura scenico-narrativa, (che può essere verbalizzata, ma che, per lo più, è non verbalizzata e non verbalizzabile) e tendono a fissarsi come dei silenziosi attrattori. In breve, il “vincolo” è uno schema fisso anticipatorio di emozione-azione, che in virtù della marcatura emozionale, limita il ventaglio delle azioni possibili e anzi, spesso, prescrive una risposta o la inibisce, ponendosi anche come un attrattore. Tali schemi incidono profondamente nell’ambito del sentimento del me e tendono a modellare, tramite la forza della previsione emozionale, dei ventagli di possibilitàlimitata nell’organizzazione del vissuto e della competenza intenzionale, relazionale e comportamentale del soggetto.
Un vincolo si colloca nel contesto della rete dei vincoli, nel senso che i vincoli piùbassi, restringendo il ventaglio delle scelte o prescrivendo una scelta, determinano, con la limitazione delle azioni possibili, quelli più alti. Ciò significa che un vincolo superficiale, che risulta fenomenologicamente rilevante, dovrebbe essere compreso come determinato dalla rete dei vincoli più bassi, nel senso che sarebbe, in un certo senso, una “conseguenza di”. In questa stratigrafia di vincoli si puòdistinguere un livello “molare” da un livello “molecolare” che sottendono anche due differenti livelli di emergenza del significato che possiamo indicare come soggettuale molare il primo e come soggettuale molecolare, il secondo.
3.3.1. Livello soggettuale molare
Nel caso di Maria che prende il treno verso Civitavecchia, abbiamo a che fare con un comportamento complesso che ha un’evidente e osservabile trama scenico-narrativa e un’configurazione, appunto, molare. Molti comportamenti tradizionelmente intesi come transferali o difensivi e così pure i lapsus, gli atti mancati, molti “agiti” e persino i sintomi sembrano potersi raggruppare in una classe caratterizzata dall’azione di vincoli strutturati e facilmente osservabili, che manifestano una palpabile trama narrativa. Questa classe particolare di vincoli sono in genere molto alti nella scala gerarchica e per questo superficiali, circoscritti e analizzabili in virtù della loro trama narrativa e della connessione reiterata con una azione e con delle concrete conseguenze osservabili. E’ proprio questa struttura narrativa ad aver nutrito la concezione tradizionale dell’intenzionalità inconscia perché, anzitutto, in questi casi un’intenzione o scopo è facilmente deducile dall’intera sequenza molare e, in secondo luogo, l’attribuzione di intenzionalità è la regola routinaria cui ci affidiamo nella valutazione delle nostre interazioni quotidiane (Scano, 2015). Maria, ad esempio, analizzando la sua involontaria scelta del treno, che la porta lontano dallo studio del terapista, troverà che alla radice dell’errore c’era l’intenzione di fuggire dalla seduta. L’intenzione narrativamente inferita potrebbe essere anche del tutto ragionevole dal punto di vista del significato, ma questa ragionevolezza, tuttavia, non può giustificare l’asserto secondo cui essa è anche da ritenere la causa di quel comportamento.
Tutti i vincoli, a prescindere dalla loro posizione alta o bassa, tendono a funzionare come attrattori e, quindi il nesso tra rappresentazione-emozione-azione può essere traslato per via logica analogica o metaforica e, in tal modo può promuovere un vissuto, una modificazione inconsapevole o anche consapevole dello stato emotivo, che si esprime poi in un’azione o in una reazione. Talvolta il nesso tra “significato” e azione può essere consapevole, (o può essere nel corso del lavoro analitico, diventato consapevole) e, in questi casi, il soggetto sarà in grado anche di esprimere e motivare l’eventuale percezione del vissuto o l’azione mediante una spiegazione o mediante un ricordo o una generalizzazione. Altre volte il nesso non è consapevole, ma è espresso tramite indizi, in qualche modo, percepibili da T. Altre volte, infine, il nesso è del tutto inconsapevole e non verbalizzabile, in questi casi, l’eventuale azione, reazione o emozione apparirà “incongrua” e magari irrealistica.
3.3.2. Livello soggettuale molecolare
L’indagine del livello soggettuale del significato implica l’attestarsi su di un punto di vista intra-soggettivo. Si tratta, infatti, di una connotazione e di un senso strettamente pertinente alla storia e al racconto specifico di un soggetto. Nel frammento di caso clinico appena citato, il significato che muove il malessere di M ha peròanche una valenza intersoggettiva che coinvolge sia la madre che il terapista. - In secondo luogo, tale connotazione non nasce nel vuoto, ma in risposta all’azione di T, che, di fatto, senza saperlo, si ècollocato\ècollocato in un ruolo e recita una “scena”, in cui si trova, suo malgrado, a “colpevolizzare” M, svolgendo, agli occhi di M, lo stesso ruolo della madre .
Questa sostanza intersoggettiva non caratterizza soltanto l’azione dei vincoli strutturati e alti nella gerarchia, che, in virtù della loro valenza scenico-narrativa, possono anche avere rilevanza linguistica, ma anche quelli piùbassi, che non hanno valenza linguistica e narrativa e cui ci riferiamo con l’aggettivo molecolare.
Questo ulteriore livello di emergenza del significato (quarto livello) travalica l’ambito linguistico, perché la sua modulazione e costruzione non avviene nel “discorso” e non soggiace, quindi, alle regole di costruzione proprie della lingua; non è cioè delimitato e costruito con le regole grammaticali e sintattiche, ma a partire da un altro e differente set o complesso di regole, del tutto indipendente dalle regole del discorso.
Questo set di regole non combina suoni o lettere in rapporto ad un referente, rappresentato in maniera simbolica da un segno linguistico o iconico, ma combina le emozioni e i sentimenti e regola la combinazione tra le emozioni e i sentimenti con eventi relazionali, previsioni e valutazioni di eventi relazionali, sulla base di un “peso” e di una “marcatura”, che si sono auto-organizzati nel corso della storia delle sue interazioni.
La “grammatica”di questa lingua emozionale è essenzialmente biologica, non linguistica. Essa poggia, infatti, sull’automatismo dell’attribuzione di significato elementare costituito dalle emozioni primarie, che connotano secondo regole biologiche, fissate dall’evoluzione, i valori primari e situazionali del piacere, del dolore, della paura, della rabbia e del disgusto. La connessione tra la risposta emozionale “dolore” o “disgusto”, in risposta ad uno stimolo doloroso o disgustante, non èarbitraria, (come nella lingua il nesso tra simbolo e significato), ma stabilita dalle regole biologiche del corpo.
La “sintassi”, che regola, invece, la costruzione delle frasi di questa “lingua emozionale”, è composta dalle regole, che governano la declinazione del linguaggio emozionale nell’ambito del rapporto tra il singolo individuo e gli altri membri a lui prossimi della specie. Tali regole coordinano la grammatica biologico-emozionale del soggetto con la corrispettiva dinamica emozionale degli altri soggetti nell’ambito, tuttavia, di trame relazionali determinate dalla struttura elementare della socialità umana, preformata dalla biologia sociale della specie, ma formattata nella cultura complessiva, in cui si svolgono le interazioni specifiche di quel soggetto. La grammatica e sintassi di questa lingua emozionale determinano, cioè, la concreta semantica soggettivo-intersoggettiva del singolo soggetto, nella giunzione tra l’organismo “biologico” e l’intersoggettività bio-socio-culturale, mediata dalle concrete realizzazioni di tale intersoggettività nell’effettiva grammatica e sintassi emozionale dei soggetti adulti rispondenti. Tale semantica individuale si struttura, infatti, nella totalità delle interazioni del cucciolo umano con gli adulti del suo contesto di accoglimento, sino a costruire la competenza relazionale\emozionale di quel soggetto.
In queste interazioni è possibile, credo, individuare delle unità elementari, che sono, per così dire, le molecole dell’interazione intersoggettiva o le “note” elementari della musica dell’esperire intersoggettivo, il cui valore o peso di base, in partenza, è dato dalla connessione originaria con le emozioni primarie e dunque da un “peso”, che, all’origine, è organismicamente determinato.
Un’ipotesi ragionevole è che i due domini, molare e molecolare, pur nascendo dallo stesso terreno e sulla base dei medesimi meccanismi, siano, in qualche modo alternativi, soprattutto in quei casi, in cui il “peso” e la valutazione degli snodi intersoggettivi hanno, per lo più, un valore negativo tanto da costituire il problema più difficilmente superabile nell’ambito dell’interazione terapeutica. Intendo dire che nelle persone, che hanno una sufficiente ricchezza e varietà nell’attribuzione del significato agli snodi elementari dell’interazione, sarà meno probabile trovare dei “blocchi” di “resistenza muta”, dovuta ai significati del livello soggettuale molecolare. Essi presenteranno, più facilmente, una scorrevolezza emotiva, che consentiràloro una sufficiente flessibilità, nelle associazioni emozionali e ideative e, dunque, una maggiore capacità espressiva, sia nella narrazione sia nella significazione per analogia e metafora. Gli eventuali problemi saranno, quindi, più circoscritti e, per quanto nascosti o sconosciuti nel significato specifico, saranno, in qualche modo, presenti nella narrazione complessiva o, proprio a causa dell’eccezionalità del loro presentarsi, essi si delimiteranno, quasi da sé, nel fluire della narrazione. In questi casi, questo livello di emergenza del significato non emerge cioè come problema, se non eccezionalmente. Assai diversa è invece la situazione nei casi, in cui è proprio questo problema a emergere come preponderante nell’interazione terapeutica. Io credo che ciò accada con quei pazienti
- che “non parlano”o che hanno una rigidità e povertà ideativa, sia straparlino sia che non parlino;
- che non si fanno “toccare emozionalmente”;
- che hanno una tastiera emozionale povera e monocorde;
- che hanno una introspezione elementare non dovuta ai limiti culturali;
- che presentano una prevalenza di pensiero concreto e riferimenti prevalenti alla realtà concreta esterna;
- che hanno una capacità di connotazione rigida e limitata per cosìdire ai “colori”emotivi essenzialmente primari;
- che hanno una corazza apparentemente razionalizzante, che maschera una continua disattivazione dell’emozione corporea.
LIVELLI DIACRONICI DI EMERGENZA DEL SIGNIFICATO
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- Scritto da Gian Paolo Scano
4. LIVELLI DIACRONICI DI SIGNIFICATO
Oltre che dal punto di vista sincronico l’interazione tra M e il suo terapista può essere considerata da un punto di vista diacronico, che apre un ulteriore orizzonte di emergenza di significato. La sequenza delle interazioni e narrazioni, nel fluire di ogni “qui e ora” del succedersi delle sedute, va man mano costruendo una storia, che scorreràsul doppio binario del dominio interattivo e del dominio meta-interattivo.
La dinamica e la trama di questa storia saranno determinate:
- nel dominio interattivo dalla rete corrispettiva dei vincoli che la storia pregressa ha fissato nei due soggetti T e P che interagiscono. Naturalmente si può sperare (in virtù dell’analisi personale, delle supervisioni e, in generale del lavoro su di sè) che i vincoli di T non siano tali da confermare simmetricamente quelli di P e che, dunque, le sue risposte interattive e metainterattive possano disconfermare le risposte attese da P, determinando perturbazioni che potrebbero favorire una modificazione delle sue aspettative vincolate.
- Nel dominio meta-interattivo dinamica e trama della storia saranno invece determinate dalla qualità e possibilità del lavoro analitico sia in termini di aderenza agli effettivi processi interattivi, sia nella capacitàdi sciogliere i nodi determinati dai vincoli di P, sia dalla capacità condivisa di produrre narrazioni nuove dell’allora nell’ adesso.
A partire dal punto di vista diacronico si possono distinguere due differenti livelli di significato che potremo indicare come livello del sentimento di fondo della relazione e livello del personaggio e della trama, a cui mi riferisco volentieri come livello del quesito della sfinge.
4,1 Sentimento di fondo dell’interazione
Tutte le relazioni umane abbastanza intime, che si prolungano nel tempo, sono caratterizzate da un processo di valutazione continua dello stato dell’andamento della relazione, che verte sulla percezione complessiva del valore o del peso, che attribuiamo, in un arco temporale, alla media positiva o negativa della sequenza degli eventi interattivi. Potremmo riferirci, a quest’importante aspetto del significato, come al “sentimento di fondo” della relazione.
Anche nella relazione terapeutica i due soggetti interagenti valutano sia sul piano processuale interattivo, sia su quello narrato meta-interattivo, (in modo per lo più implicito o anche esplicito), l’andamento della relazione. Questo processo di valutazione ha un ruolo assai importante e siamo inclini a pensare che sia strettamente correlato con il buon andamento della terapia e con il suo esito positivo. Un sentimento di fondo positivo sembra corrispondere al sentirsi compreso, accettato e voluto bene di P da parte di T e anche di T da parte di P, dalla reciproca valutazione dell’efficacia dello scambio interattivo e dal flusso di emozioni positive.
Come avviene nel sentimento di fondo propriamente detto, l’andamento di questo particolare aspetto del significato può attraversare “fasi” colorate in modo differente. Quando interviene una “fase” meno positiva o negativa, sia nell’umore di fondo di un individuo come nel sentimento di fondo di una relazione, il flusso delle emozioni positive e le motivazioni all’interazione sembrano calare e le persone sono portate a interrogarsi sul “che cosa sta succedendo”, sul motivo o la causa dell’andamento meno favorevole. Talvolta può accadere che venga trovata una causa precisa, in una situazione, un fatto o un atteggiamento. Altre volte il raffreddamento del colore o del tono emotivo sembra dipendere da motivi piùmisteriosi e impercettibili. Mi sembra ragionevole pensare, che, in ultima analisi, l’andamento del sentimento di fondo dell’interazione sia funzione di una sorta di minimo comune denominatore nel “peso”, che si attribuisce, in un arco di tempo, ad alcuni degli snodi basici dell’interazione particolarmente rilevanti per quel soggetto.
Considerando il vissuto di P, da un punto di vista molto generale, si possono indicare tre differenti possibilitànel tono del sentimemto di fondo:
- P può dare una valutazione positiva dell’andamento della relazione e del suo sentirsi in relazione. In questo caso non nasceranno particolari problemi ed eventuali eventi relazionali negativi (sia “reali”come potrebbe essere un ritardo di T o più idiosincratici del vissuto di P, a causa, per esempio, di un vincolo imprevisto che si attiva) si tradurranno facilmente, se risolti, in un rafforzamento del sentimento positivo di fondo.
- P può dare, invece, una valutazione francamente negativa, che porterebbe o a una interruzione precoce dell’interazione terapeutica o a un protrarsi nel tempo di una relazione conflittuale, che potrebbe anche rimandare ai significati emergenti al secondo livello diacronico, quello del personaggio e della trama, di cui al prossimo paragrafo. Una valutazione negativa del tutto implicita e sotterranea o magari anche camuffata da positiva di fatto si confonde, invece, con il livello di significato di quarto livello (soggettuale molecolare). E’difficile dare esempi di questa tipologia di casi. Si tratta, in genere di terapie, che non decollano e di cui si è parlato trattando dei significati del livello soggettuale molecolare, in cui proprio la natura, prevalentemente, non linguistica delle valutazioni e, dunque, l’assenza o difficoltàdi lettura, delle scarse trasposizioni metaforiche, rende difficile dare esemplificazioni significative.
- Più complesso, ma più facilmente esemplificabile, è il caso in cui la valutazione da parte di P sia sia dichiaratamente altalenante. Per esempio, in una lunga fase della terapia, l'umore di Caterina aveva un andamento pendolare: se si sentiva in sintonia con T, stava bene ed era relativamente in pace con il mondo; se si sentiva in rottura con T, precipitava in un vissuto oscuro, rifiutante, aggressivo e di quasi abbrutimento. T e Caterina si riferivano, correntemente, a questa situazione altalenante, con la metafora della "stadera" e Caterina s’interrogava spesso (e interrogava T) a riguardo del che cosa facesse salire o scendere il piatto della stadera, verso l'alto o il basso. Un giorno T e Caterina lavoravano, in un buon contesto relazionale, sull'alternanza delle fasi e sul salire e scendere del piatto della stadera. T si prefiggeva di vedere se era possibile per lei accettare che, in qualche modo, la "svolta emotiva" verso l’alto o il basso, fosse frutto di un qualche tipo di "scelta" da lei stessa, in qualche modo, determinata. Nel corso di questo scambio, T disse: “Beh! Io …ho sempre…più…lo stesso atteggiamento". Il cambiamento fu repentino. T, sopravalutando l'ovvietà della situazione, che a lui sembrava macroscopicamente chiara e, soprattutto, sottovalutando le molte situazioni, in cui qualcosa di simile era già successo, commise l'errore di cercare di spiegare l'errore di contestualizzazione. Ciò portò a una radicalizzazione del conflitto e a una violentissima contrapposizione difensiva. Solo dopo molte sedute, fu possibile stabilire che "Io sono sempre uguale", nell'ottica di Caterina, aveva “significato”: 1) sei come mia madre; 2) io non ho alcun potere di influire su di te; 3) quindi il rapporto èfinto; 4) tu sei "indifferente" e, per quanto in buona fede, mi "inganni".
In questo caso, il cambiamento, che avveniva, modificava proprio la valutazione del “peso”e dei “valori”di tutti gli snodi interattivi e ciòannullava ogni possibilità di “scambio positivo”. Si può pensare che, per quanto non in forma così drammatica, ciò avvenga continuamente nell’interazione terapeutica, in virtù della scannerizzazione sotterranea del flusso interattivo, da parte del sistema di marcatura emozionale, che, in ogni momento, nel “campo minato” dei nessi marcati, può impattare una “mina”. Quando ciòaccade, emerge un significato di livello soggettuale molare, almeno teoricamente interpretabile, ma quando le mine non ci sono o non esplodono, l’elettroencefalogramma dell’interazione resta piatto.
In generale si può, tuttavia, pensare che il sentimento di fondo dell’interazione, sia doppiamente determinato:
- a monte, dalla strutturazione dei pesi e dei valori degli snodi elementari dell’interazione, codificata dal singolo soggetto nella sua storia e narrazione pregresse;
- a valle, dall’andamento, nel corso della terapia, del vissuto relativo a quegli stessi nodi, che, tuttavia, è, in qualche modo, predeterminato dal collo d’imbuto della codificazione pregressa;
La modificazione di questi valori predeterminati è più facile se s’incontrano con una certa frequenza “mine” transferali disinnescabili. Naturalmente, se le mine scoppiano e basta, diventano facilmente ulteriori conferme della codificazione pregressa.
4.2 Livello del personaggio e della trama (o del “quesito della sfinge”).
Un soggetto, un verbo e la relazione con un altro soggetto disegnano una “trama”. Le trame e i canovacci, per loro natura, implicano ruoli e posizioni per i soggetti coinvolti, che, nelle loro narrazioni, trovano spesso una ricorsività nelle trame dei loro racconti e delle posizioni che si trovano ad occupare nelle situazioni che hanno vissuto o che vivono. Talvolta essi attribuiscono al “destino”, al “karma”o semplicemente alla “sfiga" la responsabilità di queste, di solito spiacevoli, ripetizioni. Talvolta invece attribuiscono la ricorsività a una propria manchevolezza, a un difetto di giudizio o persino a una colpa, in genere sconosciuta. Altre volte invece la responsabità è attribuita ad un altro soggetto o al mondo esterno.
I soggetti che si autoraccontano in terapia spesso producono narrazioni in cui la ricorsivitàdelle trame, dei ruoli e delle posizioni èdel tutto esplicita e manifesta. Talvolta se ne attribuiscono la responsabilità (“Sono fatto così! So che èsbagliato, maèpiùforte di me e in queste situazioni mi comporto sempre così!”) . In altri casi la consapevolezza riguarda soltanto l’esito spiacevole o francamente negativo (“Tanto a me succede sempre così!”). Altre volte manca, invece, del tutto la consapevolezza di una trama o di una posizione ricorsiva e il soggetto può persino meravigliarsi quando viene confrontato con questo aspetto ricorsivo del suo comportamento.
A partire dalla nozione di vincolo si può formulare la congettura che i pesi e valori ricorsivi, che un soggetto attribuisce a un’agglutinazione di “snodi intersoggettivi”, possano determinare dei vincoli basilari, che a loro volta indirizzano verso posizioni o profili, che, ad un livello piùalto, disegnano ruoli in trame piùspecifiche come “il non amato”, il “rifiutato”l’“abbandonato”, “la vittima”o “il rifiutante”…ecc. Tali profili e ruoli si radicano, per altro verso, in quelli snodi basilari dell’interazione, che abbiamo giàindicato come una “sociologia essenziale”, tutto sommato, biologicamente determinata, costituita dalle necessitàe dai vincoli, determinati dalle necessitàbasiche dello “stare insieme” di piùindividui. Tale sociologia essenziale consta essa pure di “trame”, che disegnano le “figure”, i ruoli e le posizioni essenziali dell’incontro\scontro dei membri di un gruppo di umani, modellando, in rapporto a tali figure e ruoli, i significati emozionali. Nel corso dell’evoluzione culturale, tali trame si sono, man mano, saldate e coagulate in “ruoli”, “azioni” e “posizioni” prescritte in rapporto alle “leggi” della convivenza gruppale, in relazione alle necessità dell’organizzazione e della sopravvivenza del gruppo. Qualcosa del genere, del resto, avviene in molti gruppi biologici, soprattutto tra i mammiferi e, in particolare, tra i primati, in cui, per esempio, la gerarchia di gruppo stabilisce azioni prescritte, prestazioni dovute e azioni, invece, proibite e sanzionate. Trame del genere regolano, ad esempio, anche nella nostra società, il sistema organizzato delle relazioni e delle emozioni, che governa l’accesso del soggetto al vissuto condiviso. Da questo punto di vista, l’ambiente umano è un territorio virtuale disegnato da trame, che definiscono scene e canovacci, e, dunque, azioni, posizioni e ruoli, che fissano percorsi, in cui la circolazione èregolata da sistemi viari emozionalmente marcati (giusto-sbagliato, adeguato-inadeguato, accettabile-inaccettabile, buono-cattivo…), da schemi fissi di relazione simmetrici (adulto-adulto, bambino-bambino, maschio-maschio, forte-forte…) o complementari (adulto-bambino, femmina-maschio, governante-governato, potente-debole…) e da “valori”, che determinano il “peso” di un vissuto o di un’azione. Tali trame hanno acquisito, sin dai tempi più antichi, anche un valore “narrativo”, che si esprime nella “narrativa universale”e, dunque, nei miti religiosi di ogni popolo, nelle storie epiche e nelle saghe e, man mano, nelle storie e nei racconti delle letterature e, oggi, del cinema, delle canzoni e della narrativa televisiva popolare.
In quest’universo di trame e di ruoli, spesso, i soggetti, a prescindere dalla consapevolezza delle trame più superficiali e manifeste, giocano in modo tacito o del tutto inconsapevole un ruolo ripetitivo, più profondo e sotterraneo come il “non amato”, l’“ultimo”, lo “sfruttato”, l’”abbandonato”, il “tradito”, l‘“incompreso”, il “bello”, il “vincnte”, il “perdente”o, a volte, anche più specifico, a partire da trame narrative molto diffuse come il “cacciatore”, la “preda”, la “vittima”, ecc.
Molte di queste trame sono tali da costringere un soggetto interagente in un ruolo o in una posizione in cui non può non rispondere. Per esempio, una “trama” come “Io ti amo” o “io ti accolgo” o “io ti domino”non può non avere risposta: il “tu” in questione può accettare o rifiutare la posizione di “amato”, “accolto”, o “dominato”, ma non può non rispondere. Non so se si possa attribuire a questa scelta di ruoli in una trama un valore universale, ma spesso, in terapia, il paziente, non si limita a narrare il suo personaggio e il suo ruolo nella trama, ma nell’interazione ripete la sua trama, costringendo il T a situarsi nello “stretto passo” come accadde a Edipo con Laio e successivamente a Tebe, quando si trovò appunto a rispondere al quesito della sfinge. In questi casi T si ritrova suo malgrado nel ruolo complementare, rispetto a quello incarnato dal paziente. Talvolta la trama è “semplicemente detta”, altre volte invece è “agita”in maniera ricorsiva in una sequenza di eventi interattivi prossimi a ciò che gli americani chiamano “enactment”.
Lo “stretto passo”più arduo, in cui mi mi sia trovato a essere posizionato, avvenne molti anni fa con Anna. Già nella seconda seduta, in maniera molto netta, annunciò che lei non avrebbe seguito in alcuna maniera la regola di comunicare qualunque cosa le fosse venuta in mente. Avrebbe scelto lei e solo lei che cosa dire o non dire. Anna si definiva “il terzo tentativo di suo padre di avere un figlio maschio”, era cresciuta in una famiglia dominata dalle donne (madre, nonna, sorella maggiore), aveva avuto il nome di una sorella morta da neonata, e raccontava di una madre fredda, controllante e intrusiva. Anna non parlava della sua vita quotidiana, della vita familiare, del lavoro, a meno che non si trattasse di accadimenti "importanti" per i significati che lei attribuiva loro. Questa modalità comunicativa aveva una importante eccezione: i sogni. Era un'ottima sognatrice e portava sistematicamente sogni molto densi e quando lavorava sui sogni era loquace, precisa e forniva materiale associativon ricco e continuo. In questo contesto poteva tuffarsi tranquillamente nel passato anche infantile, divagare sui rapporti attuali o del recente passato e persino parlare del quotidiano.
La fase iniziale, durata circa un anno, permise comunque una comprensione piùprofonda del suo mondo interiore e relazionale, ma T, che era stato posto in una posizione di "osservatore non partecipante necessario” si trovò presto in un angusto “stretto passo”. La quantità di comunicazione andò diminuendo: pause e riflessioni silenziose aumentarono sino a coprire talvolta l'intera seduta. Le sedute silenziose o prevalentemente silenziose si alternavano ad altre molto fruttuose. Ciò accadeva sempre in relazione a sogni. In questi casi si può dire che M. azzannava il sogno lavorandoci anche per due o tre sedute consecutivamente. La situazione terapeutica si fece man mano più ardua perché il silenzio divenne prevalente sino a diventare totale. M. veniva regolarmente in seduta e, semplicemente, taceva, salutando poi alla fine. Il silenzio non era ostile o d'attesa, manifestava piuttosto un intenso lavorio interno molto conflittuale da cui il terapista era escluso. Talvolta egli raccogliendo qualche segnale di maggiore disponibilità, (o, più probabilmente, reagendo al proprio imbarazzo) provava a stimolarla in modo leggero. A non raccoglieva o rispondeva per cortesia o, semplicemente, spiegava che in silenzio stava a suo agio e che questo era ciò che le era utile.
Tacque per oltre tre mesi. Quando ruppe il silenzio, spontaneamente ammise che le ragioni addotte per giustificare la sua "regola" non la convincevano più e che forse le vere ragioni erano altre, anche se con questo non intendeva dire che avrebbe modificato la sua regola. Si aprì cosi una fase intensa di lavoro in cui T non era più solo un "osservatore necessario non partecipante" , poteva anche dire di A e ad A qualcosa che A non poteva dirsi o dire. Era anche uno che teneva il “filo". Dopo qualche “filo”perso si aprì una nuova fase di silenzio di 4 mesi.
Tutta la fase centrale della terapia si svolse nello stretto passo caratterizzato da cinque periodi di silenzio totale. L’ultimo durò cinque mesi. Le fasi di silenzio finivano sempre con un sogno o una serie di sogni particolarmente significativi. Ogni fase “parlata”consentiva a A di analizzare un pezzo oscuro del suo mondo interiore, cominciando dal suo rapporto con la madre, e successivamente con il padre, ma le consentiva anche di ridefinire il rapporto con T sino a una fase in cui A tendeva a parlare solo su lieve sollecitazione di T. Questa tendenza sembrava connessa alla sua “regola” che ormai aveva perso vigore e su cui lei stessa ormai ironizzava. La cosa in sè stessa non ebbe rilevanza, ma aprì il discorso sul "terapista", che adesso c'era ed era riconosciuto. I sogni tornarono a incentrarsi sulla coppia terapeutica e, in occasione di un viaggio a Parigi, il terapista ebbe la sorpresa di vedersi recapitare una cartolina firmata "Anna". Era una sorta di atto di accettazione della sua esistenza nel mondo interiore di A. Il clima relazionale era ora in genere disteso e si aveva la chiara percezione di un livello di alleanza stabile e anche di fiducia. Anna. scherzava ora anche sui suoi silenzi e affermava che erano serviti molto fece anche qualche accenno sul fatto che non doveva essere stato facile neppure per T digerire tutto quel silenzio.
Ho dato qualche accenno di questo caso clinico per esemplificare il livello di significato cui mi riferisco con il quesito della sfinge e che nel caso di A aveva a che fare con la fiducia, con l’identità, con la necessità di essere accettata in quanto A, con gli steccati da contrapporre all’intrusività esterna ecc. E’un diverso genere di significato, rispetto alla stratigrafia, che abbiamo descritto e su cui, forse è necessario riflettere e pensare. Tale significato complessivo e narrativo sembra connettere, in un unico nodo narrante e narrato, la grammatica somatica del significato emozionale, la sociologia essenziale dello stare insieme, il peso degli snodi elementari dell’interazione, la stratigrafia degli interpretanti connotativi, il sentimento di fondo del “me”e delle interazioni e l’Io come racconto. In una parola sembra connettere e coniugare la grammatica biologica delle emozioni e la biologia essenziale dello stare insieme, nell’ordito e nella trama della storia dell’individuo, del gruppo e della specie.