Ci sarebbe una maniera semplice e logica di risolvere il problema di comunicazione con il contendente che abbiamo evocato. Si potrebbe infatti anzitutto precisare e mettersi d'accordo sul primissimo livello, sulla "cosa", lasciando da parte provvisoriamente ogni spiegazione della cosa e ogni congettura sulle sue prestazioni basate sulle spiegazioni della cosa. Si tratterebbe di precisare che possa essere indicato con il cartellino "comunicazione inconscia" e soprattutto che cosa si cerca di indicare che può essere "comunicato inconsciamente":

  • Contenuti?
  • fatti?
  • traumi inconfessati?
  • vissuti?
  • emozioni?
  • intenzioni?

Fatto questo si dovrebbe decidere se la comunicazione inconscia è un fenomeno specifico, che interviene soltanto nelle stanze di analisi, o se è una caratteristica universale dell'interazione umana. Abbiamo scelto per il nostro virtuale dibattito un interlocutore intelligente, il quale ammetterà, quindi, che, certo, nella stanza d'analisi la comunicazione inconscia si presenta in modo specifico e peculiare, ma si tratta sicuramente di una proprietà generale dell'interazione umana. Il passo successivo quindi sarebbe di affrontare il problema teorico nell'ambito dell'interazione umana e successivamente quello specifico della comunicazione inconscia nell'interazione terapeutica.

Seguendo questa procedura logica si identificherebbe e delimiterebbe il problema teorico della comunicazione inconscia e su questa base si potrebbe impostare il problema specifico dell'interazione terapeutica. Qualora invece l'interlocutore dovesse ritenere che la comunicazione inconscia è caratteristica specifica della situazione analitica, la dimostrazione sarebbe a suo carico e dovrebbe però fare riferimento a una teoria generale e dovrebbe spiegare e giustificare il "come" e il "cosa" in termini processuali, ma, ripeto facendo riferimento a una teoria generale.

In realtà la comunicazione inconscia diventa un problema o un ginepraio incomprensibile solo se si continua a pensare nei termini di un "inconscio sostantivo" che esiste oggettivamente dentro la testa come entità non pensata che ti pensa e costruisce le tue intenzioni. Se si diluisce l'inconscio nell'effettiva dinamica dell'interazione e della meta-interazione, nella storia e nelle narrazioni dei soggetti in interazione, nel contesto di un mondo temporalmente, geograficamente e culturalmente determinato, il problema della comunicazione inconscia diventa quello - assai più complesso, ma assai più lucidamente delimitato - di descrivere gli effettivi processi in cui i soggetti costruiscono \ manifestano \ si scambiano significati e inducono modificazioni e si modificano in questo processo . Questo modo più preciso di delimitare la comunicazione inconscia si applica a qualunque interazione tra soggetti, ma avrà caratteristiche particolari in quella particolare forma dell'interazione, che a noi interessa in particolare e cioè l' interazione terapeutica. Nel lavoro di questi anni, ma sulla base di quello svolto nei 20 anni precedenti e che è confluito e riassunto in "La mente del corpo", sviluppando il concetto di vincolo e ridefinendo la problematica del significato, abbiamo seppure genericamente provato a sostituire una concezione "essenzialista" di inconscio, con una concezione processuale, che può esprimere in termini di vincoli, catene di vincoli e costruzione di significati, intenzioni e azioni, e concretamente in termini processuali, ciò che la psicoanalisi ha sempre espresso in termini di conflitto, difesa, transfert, controtransfert.

In questo senso spero di poter riuscire a disegnare un processo terapeutico a partire dall'idea che, nel momento in cui un P e un T si accordano per iniziare, inizia un processo in cui, i due soggetti, che hanno motivi, scopi, progetti e modalità dichiarate, li perseguono ciascuno dei due sotto la guida del suo navigatore mentale, che in base ai vincoli registrati nel suo data-base, attribuisce a ogni parola, stimolo, evento o indizio, per dirla con Eagle, un significato e una intenzione, che imporrà in modo più o meno imperativo (a seconda del livello) nella serie indefinita delle rotonde di prendere la prima, la seconda o la terza uscita. E' una maniera del tutto differente, rispetto a quanto sottolinea il dibattito corrente, di intendere una comunicazione inconscia nel tessuto incerto e variato del processo di una terapia.

* Testo presentato al Laboratorio 2.0 di Verona il 18 - 04 - 2021.

Il concetto di vincolo, per sé, non può e non deve essere inteso primariamente come descrittivo. Non si riferisce, infatti, esclusivamente e necessariamente a nessi apprezzabili fenomenologicamente e facilmente individuabili nel racconto dell’esperienza del soggetto, anche se, già nell’auto-presentazione iniziale di un paziente è quasi sempre possibile identificare e isolare uno o più vincoli, che si impongono all’osservazione per la loro valenza fenomenica. In genere il vincolo più immediatamente evidente è un sintomo ben definito, che si presenta in una o in più classi di situazioni in modo ripetitivo e per lo più automatico. In un caso, studiato sistematicamente per oltre tre anni, si trattava di uno scoppio di rabbia incontenibile che si presentava in quattro classi di situazioni che fu possibile identificare, analizzare e descrivere. Nella maggior parte dei casi è possibile individuare analoghi vincoli in molti comportamenti sintomatici, in comportamenti idiosincratici ripetitivi (di cui il paziente può o no avere consapevolezza), in comportamenti giustificati da asserti (talvolta del tutto consapevoli, talvolta meno) della teoria della mente personale del soggetto o da asserti relativi alla sua teoria dell’altrui mente, come nel caso di quadri sintomatici caratterizzati da comportamenti esplicitamente evitanti o da inibizioni diffuse. Questi vincoli più superficiali, che manifestano una più evidente valenza descrittiva, sono da considerare in realtà il capo emergente di una catena di vincoli sottostanti e, in quanto tali, sono anche una porta attraverso cui l’analisi può penetrare per individuare tale rete.

E' necessario anche precisare che, malgrado questa seduttiva osservabilità fenomenica, non ci sono  vincoli come “cose” nella "testa" dell'analizzando allo stesso modo in cui non ci sono rimozioni, proiezioni o transfert. “Vincolo” (come rimozione o transfert anche se spesso e volentieri viene dimenticato!) è un concetto e "sta" quindi nella teoria dell’osservatore non nella "testa" dell’osservato. Come ogni concetto può avere dei referenti fenomenici, ma il suo compito non è quello di descrivere un fenomeno, ma di rendere conto e spiegare effetti e risultanze di processi non direttamente osservabili, che avvengono, per così dire, nella pancia del soggetto.

Stabilito che vincolo non si riferisce per sé a un fenomeno, ma è un concetto appartenente all’armamentario dell’osservatore e che un vincolo superficiale è da considerare come la punta emergente di una rete gerarchica di vincoli è necessario passare a considerare in che modo questa organizzazione vincolata si traduca nel vissuto e nel comportamento. Si può pensare che la rete organizzata dei vincoli funzioni, infatti, come un navigatore satellitare, che, sulla base delle informazioni contenute nel suo data-base, ti dice in ogni occorrenza se devi andare dritto, a destra o a sinistra o quale delle uscite devi imboccare a una rotonda. Il data-base del navigatore satellitare è del tutto esplicito, scritto in linguaggio digitale nella pancia dell’aggeggio e può essere modificato man mano che cambia il territorio, per esempio, quando venga introdotto un senso vietato o aperta una nuova strada. La rete dei vincoli dell'analizzando, invece, non ha un data-base conosciuto né, nei suoi strati profondi, conoscibile e non può essere modificato con la semplice modifica delle informazioni nel data-base (p.e. tramite una interpretazione). Il suo data-base è la risultanza del flusso degli eventi e dei vissuti che, man mano che accadevano nel tempo, fissavano i nessi tra percezione, valutazione emozionale, azione e\o inibizione, attesa, avvicinamento, fuga. La parte più superficiale del database è quella relativa ai vincoli più direttamente osservabili e suscettibili di descrizione che sono però da considerare, come si è detto, il capo emergente della rete, determinati dagli strati più bassi di vincoli assai più difficili da individuare e descrivere. In generale, comunque, il singolo vincolo e la rete dei vincoli funzionano in modo automatico e per lo più inconsapevole per l’io osservante così che nella situazione il soggetto potrebbe trovarsi a scegliere di “andare a destra” senza nemmeno rendersi conto che il suo "navigatore mentale" gli ha imposto di andare a destra (l’alternativa, infatti, può semplicemente non solo non essere percepita, ma proprio “non esistere”!); oppure può rendersi conto solo a posteriori - ed è in genere ciò che accade in una terapia - che nella situazione x è “andato a destra” e magari che in tutte le situazioni x non può non “andare a destra” e, in questo caso, probabilmente si darà una spiegazione giustificativa qualunque.

Nel caso cui si è fatto cenno il comportamento vincolato era facilmente osservabile e il soggetto lo considerava semplicemente come un aspetto negativo e spiacevole del suo carattere, a fronte di problemi assai più generali che riguardavano l'area dell'autostima,  quella relazionale e affettiva e un sospettable sottobosco depressivo. Il risultato complessivo di questa rete vincolata era una “vita al minimo”, un’insoddisfazione persistente e un’auto-realizzazione obbiettiva e soggettiva del tutto inadeguata rispetto alle possibilità.

Questi sintomi più generali non erano certamente riferibili a un singolo vincolo, ma sembravano piuttosto come il risultato del sistema complessivo delle sue reti di vincoli che configuravano una sorta di caratteristica globale (in senso  comportamentale e caratteriale), derivante non  da singole svolte imposte dal suo "navigatore", ma che era piuttosto da considerare come il risultato complessivo  di tante svolte,  a tanti livelli e a tanti differenti incroci. Il tipo di teorie cui siamo abituati ci porta a pensare a questi problemi complessi come al risultato di una “intenzionalità inconscia” spiegata o nei termini della teoria classica o nei termini della relazione oggettuale o nei termini di qualsivoglia teoria o genericamente nei termini di un pervasivo “inconscio” che dirige le scelte in modo non consapevolmente scelto ma intenzionalmente voluto. Queste teorie come si è spesso detto pencolano tra riduzionismo e mentalismo. La congettura che sottende queste riflessioni sul vincolo è che ciò che la psicoanalisi ha sempre inteso come l’ “inconscio” possa essere tradotto nell’azione della rete gerarchica dei vincoli. Tale rete gerarchica guida silenziosamente il comportamento non attraverso insondabili intenzionalità mentalistiche, ma con il semplice esercizio di regole vincolanti, che costruiscono significati, intenzioni e moventi, secondo una grammatica e una sintassi basate sulla regolazione emozionale (Scano, 2015, pp. 262-269) e con l’esercizio di regole (relativamente o radicalmente) vincolanti, che costruiscono significati e contesti piuttosto che con l’intervento causativo di un contenuto mentale o la proiezione di un’immagine riesumata da un lontano, non verificabile passato. In questa ottica un quesito intrigante è se l’analisi dei vincoli superficiali (alla ricerca delle reti sottostanti) non possa anche fungere da fossile-guida per illuminare i processi che poi determinano i veri “sintomi” più profondi e sotterranei dell'analizzando.

Il vincolo come attrattore

Un vincolo in definitiva è un apprendimento fortemente marcato da un vissuto emotivo, che limita il ventaglio delle azioni possibili o può prescrivere un’azione in modo direttivo o persino coatto. E’ cioè un apprendimento nell’ambito del rapporto del soggetto con il suo ambiente sulla base delle risposte che la sintassi emozionale dell’ambiente (nell’infanzia essenzialmente materno e genitoriale) ha sulla tastiera emozionale basica (emozioni primarie) e successivamente sulle emozioni derivate del soggetto. Tale apprendimento disegna lo spazio intersoggettivo del soggetto e il ventaglio delle sue possibili azioni nei confronti dell’ambiente. Non si tratta naturalmente di un singolo apprendimento ma di grappoli di elementi iconici/rappresentazionali/ideativi fortemente marcati, che necessariamente si strutturano in modo gerarchico nel senso che i vincoli più bassi, restringendo il ventaglio delle scelte o prescrivendo una scelta, determinano, con la limitazione delle azioni possibili, quelli più alti. Ciò significa che ogni vincolo superficiale potrebbe o dovrebbe essere compreso e spiegato come determinato dalla rete dei vincoli più bassi, nel senso che diventa, in un certo senso, una “conseguenza di”. E’ verosimile che i vincoli veramente bassi siano del tutto inaccessibili sia al soggetto che al terapista. Quelli accessibili sono quelli che in qualche maniera sono entrati nelle narrazioni del soggetto nell’allora e nell’adesso.

Se ipotizziamo una tale rete o concatenazione di vincoli al modo che un vincolo superficiale può essere considerato come il capo emergente di una catena dei vincoli, bisognerebbe anzitutto avere qualche idea sul modo in cui tale rete abbia potuto formarsi e qualche ragionevole congettura sul suo funzionamento. In secondo luogo sarà poi necessario analizzare il rapporto tra questi meccanismi che dovrebbero spiegare l’intenzionalità inconsapevole del soggetto e il normale comportamento realistico guidato dalle conoscenze e dalle intenzioni dette e consapevoli.

La caratteristica più generale del vincolo è il suo funzionare come attrattore e tale caratteristica offre una possibilità di risposta al primo di questi due quesiti. Detto nella maniera più semplice possibile, un vincolo in definitiva è appunto uno schema stabile tra una percezione (e/o un contenuto ideativo-rappresentazionale), un’emozione e un’azione. In quanto nesso stabile è fisso, ma questa fissità è da leggere nei termini di una continua attività attrattiva, che tende a modellare secondo lo schema fisso gli elementi del flusso del vissuto che in qualche modo si lasciano ricondurre allo schema o comprendere nello schema. Se un bambino si avvicina sorridente e felice a una cane nero di media taglia e questo, magari perché ha visto o sentito avvicinarsi un altro cane, spuntato dietro al bambino, improvvisamente abbaia minacciosamente, può suscitare nel bambino una forte reazione di paura, che, supponiamo, marca l’immagine “cane nero”. Il nesso cane nero/paura può successivamente allargarsi ai cani non neri e comunque grossi e successivamente a tutti i cani anche al barboncino della signora accanto e magari ai gatti che comunque hanno quattro zampe, una bocca e dei denti. In questo senso il nesso è stabile ma come galleggiasse o scorresse su una superficie liquida o in un territorio fluido. Quando ho cominciato a riflettere sulla nozione di vincolo pensavo che l’attrazione si esercitasse essenzialmente sul versante percettivo/rappresentazionale con un processo di semplice trasferimento da un percetto A a un percetto B per via logica (p.e. una somiglianza in un qualche elemento rilevante), analogica (p.e. una equivalenza nel funzionamento come una fotocellula e un interruttore che sono "simili" perché ambedue accendono una lampada) o metaforica ( un metaforizzante per un metaforizzato penoso A, può a sua volta essere metaforizzato per un altro metaforizzante B, che può diventare in tal modo metaforizzante di A). Continuo a pensare che questa sia la via più semplice e più battuta nei trasferimenti di significato. Un bambino che avesse un padre collerico e fortemente punitivo potrebbe stabilire un nesso tra un vissuto emozionale di paura/terrore paralizzante e l’immagine del padre. Tale immagine potrebbe avere aspetti percettivi come l’essere alto e grosso, l’avere folte sopracciglia, una voce baritonale, delle mani grosse… La marcatura “paura/terrore paralizzante” (e, dunque, l’aspettativa di) potrebbe essere trasferita per via logica su un individuo non-padre che fosse alto e grosso o avesse folte sopracciglia, o mani grosse ecc. Potrebbe però essere trasferita per via analogica su un maestro o una qualunque “autorità”, che in qualche modo sta in alto mentre il ragazzino sta in basso e per via metaforica su qualunque elemento in grado di metaforizzare, perché per esempio vissuto come “alto” o come “grosso” (come un grosso animale o magari un … tir!), l’induzione della “paura/terrore paralizzante”!

Il nesso marcato del vincolo potrebbe però trasferirsi anche in altri due modi. Anzitutto il vincolo tra emozione/anticipazione/azione potrebbe essere trasferito come un “tutto”, come una sorta di modulo pre-confezionato come un martello o un cacciavite adatto all’uso. Il soggetto, p.e., potrebbe aver sperimentato un vantaggio della connessione disturbo emozionale/rabbia/esplosione rabbiosa e utilizzarla in situazioni differenti che non sono necessariamente connesse dal punto di vista del contenuto ideativo, ad esempio, in una discussione durante una lezione di filosofia o nel corso di una cena con amici o in una interazione con la cugina del fidanzato o della fidanzata. In questo senso il vincolo funzionerebbe appunto come un format esportabile in una variabilità di contesti. La marcatura in questo caso sarebbe esercitata dalla valutazione emozionale dell’azione in uscita (e non dello stimolo in entrata), per esempio, dallo sperimentare lo scoppio di rabbia come un elemento risolutore del vissuto crescente di pressione emozionale o come una sorta di evacuazione che ristabilisce una “normalità” emozionale. In questo caso il vincolo sarebbe più specificamente effetto della marcatura del risultato.

Il secondo ulteriore modo di esercitare la funzione di attrattore il vincolo potrebbe ricavarla anche dal vissuto emozionale marcato. In un caso da me seguito in supervisione, il soggetto descriveva l’elemento emozionale-corporeo del vincolo come angoscia, chiusura, disperazione. Non si tratta di un’emozione discreta ma di una configurazione emozionale globale, come dire, ameboide, che potrebbe “comprendere” vissuti emozionali anche abbastanza differenziati r diversamente motivati. Prer esempio un’ansia particolarmente accentuata rispetto a un evento temuto x potrebbe indurre un vissuto per qualche aspetto somigliante alla “chiusura” o all’angoscia e l’impotenza determinata dal fatto di non saper come superare il problema potrebbe indurre un vissuto simile alla disperazione e attivare il vincolo e l’azione. Penso che anche in questo modo potrebbe allargarsi l’area di attivazione del vincolo.

Un secondo elemento su cui poggia la funzione attrattiva del vincolo è invece una caratteristica più generale della mente. Noi cerchiamo di conoscere e padroneggiare lo sconosciuto a partire da ciò che è conosciuto: rispetto a un oggetto, un’immagine un problema nuovo tendiamo a ricondurlo a ciò di cui abbiamo già conoscenza ed esperienza. E’ una caratteristica generale della mente e, per la verità, lo è anche della scienza.

Non è per il momento possibile stabilire se la fluidità derivante dalla funzione attrattiva così descritta sia sufficiente a spiegare la costruzione delle reti grazie semplicemente alle tre differenti modalità di attrazione corrispondenti ai tre tipi di meccanismo di traferimento indicati. Si può infatti anche pensare che le tre tipologie di trasferimento caratterizzino, invece, vincoli di classe differente oppure che si debbano invece ipotizzare vari tipi di vincoli in base a criteri differenti, ma che possano utilizzare ciascuna i tre diversi meccanismi di trasferimento.

Il secondo problema, quello del rapporto tra vincoli e comportamento finalizzato realistico e alto, è più complesso. Queste congetture sul vincolo hanno uno scopo preciso: intendono spiegare quei comportamenti che tradizionalmente la psicoanalisi include nella classe “intenzionalità inconscia”. Accanto a quella inconscia esiste, però, e in modo almeno apparentemente ben più evidente, una intenzionalità consapevole e realistica. Un soggetto può, al di là dei suoi comportamenti vincolati, fare tranquillamente la spesa, uscire per andare a scuola se è un insegnante, preparare le lezioni, pianificare un viaggio o un giorno di vacanza, seguire in modo razionale il percorso per raggiungere la casa di un amico o la salumeria in cui compra il prosciutto. Queste scelte sembrerebbero governate, quindi, da regole razionali differenti rispetto a quelle che governano il comportamento vincolato. Anche in questo ambito esistono schemi ripetitivi cui però in genere ci riferiamo con il termine abitudini. Anche le abitudini possono essere più o meno adeguate, ma in genere, per le loro eventuali disfunzioni, sembra esagerato l’uso dell’aggettivo “irrealistico”. Forse siamo portati, però, ad allargare troppo il fossato che divide i due ambiti dell’intenzionalità e probabilmente è più corretto pensare a un continuum in cui la differenza netta è tra i due punti terminali del continuum mentre i punti intermedi sono più ragionevolmente da intendere come caratterizzati da una mistura di adeguatezza/inadeguatezza e di realismo/irrealismo a seconda della distanza dai due capi del continuum.

I due ambiti di comportamento non sembrano, infatti, così irrimediabilmente contrapposti come sembrerebbe pretendere la contrapposizione tra processo primario e secondario, ma del resto anche in quel caso si trattava per lo più di misture o di compromessi tra i due tipi di processi. In realtà, tutte le nostre intenzioni e azioni sono guidate da dei “come si fa”. I “come si fa” delle nostre azioni più realistiche e ragionevoli sono guidate da conoscenze, convinzioni e teorie esplicite o esplicitabili che poggiano su esperienze, conoscenze e, talvolta, persino su teorie o conoscenze scientifiche. Quelli invece che regolano la parte più ampia del nostro comportamento soggettuale e intersoggettuale poggiano invece su dei “come si fa” costruti sulla base della valutazione dei nostri successi e insuccessi e delle esperienze di benessere, paura, dolore e angoscia, spesso implicite o persino non esplicitabili. La modulazione dell’azione nei due territori e dunque anche dell’intenzionalità realistica sembra, comunque, dipendere dallo stesso sistema di controllo e dunque dal sistema delle emozioni. Del resto fu l’assenza di progettualità e il deficit nel comportamento adeguato in ambito personale e sociale, dopo la guarigione di Cage, a indurre Damasio a riprendere in mano lo studio del suo caso e a indirizzare il programma di ricerca. Egli ha così successivamente dimostrato che lesioni alla regione orbitaria prefrontale determinano un deficit di discernimento e la tendenza a prendere decisioni socialmente inappropriate. Ci sono buone ragioni per pensare che anche il comportamento realistico e progettuale sia governato dallo stesso sistema di regole che governa i vincoli responsabili dell’intenzionalità inconsapevole. Stabilire il modo in cui si interconnettono i due ambiti è al momento complicato ma essenziale. Poiché la provvisoria analisi del vincolo sin qui condotta sembra sottolineare la sua azione nell’ambito relazionale del soggetto è possibile ipotizzare:

1. che l’azione progettuale realistica e adeguata sia tanto più libera dai vincoli “relazionali” quanto più è svincolata dai legami e rapporti con le persone e più direttamente mirata a target strumentali e obiettivi e tanto più apparentata ai meccanismi dell’intenzionalità inconsapevole quanto più questi sono connessi all’ambito relazionale;

2. che la possibile cannibalizzazione del comportamento e della progettualità realistica da parte di quella irrealistica sia prevalentemente e più direttamente dovuta alle emozioni derivate (pudore, vergogna, senso di colpa ecc.) piuttosto che a quelle primarie;

3. Che a livello consapevole la forza motivazionale si esprima, limitando il ventaglio della scelta, tramite asserti e convinzioni relativi a quella che, in termini presi in prestito dal cognitivismo, possiamo indicare come teoria della propria e dell’altrui mente;

4. Che per questa via i successi, i fallimenti, gli insucessi e le limitazioni inibenti l’azione siano un canale importante per la regolazione positiva o negativa dell’autostima.

5. Che a questo livello sia possibile situare il meccanismo che trasferisce a livello più generale e dunque all’ambito delle grandi scelte e dei grandi obiettivi le conseguenze dei campi di vincoli più bassi o più settoriali.

In un recente articolo Roberto Contardi (La mortificazione della Metapsicologia e il disorientamento della psicoanalisi. Alle origini dell’esorcismo della strega, (2020), Rivista di psicoanalisi, LXVI, pp.11-33) affronta il problema del declino della metapsicologia, cui, in un passaggio assai noto, Freud si riferì come alla “strega”. L’A ricostruisce in modo accurato e puntuale la quasi darwiniana catena delle ascendenze genetiche degli esorcisti che, nel decennio a cavallo del 1970, giunsero a condannarla. Dalla sua ricostruzione il lettore può ricavare che a colpire alle spalle la vittima innocente fu il malefico virus germinato nella “infelice evoluzione personale e scientifica” di Ferenczi, trasmesso agli eredi e incattivitosi nell’incontro, anche utilitaristico, con il mondo accademico americano e la sua visione pragmatista e positivista della scienza. Un lettore avvezzo all’indagine storico-critica credo debba avere, su questa interpretazione, qualche dubbio e più di un’incertezza.
Non ho ascendenze magiare né particolare simpatia per Ferenczi. Credo, però, di avere una discreta familiarità con la metapsicologia, per averla studiata e insegnata per una quarantina d’anni e per averle dedicato più di una pubblicazione, dalla prima nel lontano 1982 all’ultima nell’assai più prossimo 2015. La lunga frequentazione mi offre buone ragioni per  pensare che il destino della strega è stato determinato da una trama assai più intricata e complessa di fattori, anche se la ricostruzione della “congiura magiara” potrebbe aggiungere un elemento succoso alla comprensione del suo spiacevole destino. Alla comprensione del “come”. Sicuramente  non del “perché”!
Intanto la “mortificazione” della strega si è sempre nutrita, ancora calde le ceneri di Freud, della diffusa noncuranza per la teoria formale, che il popolo degli analisti ha, da sempre, più  riverito e venerato che approfondito e conosciuto. Dagli anni  ottanta in poi la già inerziale “mortificazione” è andata scivolando in una più marcata, silenziosa, obliterazione, che si è fatta, oggi, inconfessata rimozione  tanto che temo sia difficile trovare tra gli analisti più di qualche nostalgico appassionato che sappia davvero di che si parla quando si parla di metapsicologia.
Nel determinare questo progressivo venir meno hanno certo avuto un ruolo anche le campane a morto dei rapaportiani (gli “esorcisti”!), ma nel quadro di un ventaglio di fattori sostanziali e all’interno di un processo complesso partito ben più da lontano. Del resto l’impresa stessa di Rapaport e il suo esito imprevisto ebbero sempre eco assai fievole almeno nelle nostre contrade. In Italia non furono né le riviste specializzate né uno psicoanalista o un cattedratico a riferire della crisi della metapsicologia. A parlarne per primo in modo ampio e documentato, fu nel 1981 Giovanni Magnani, un gesuita dell’Unversità Gregoriana, cui, anni dopo, fece seguito, coraggiosamente,  Giordano Fossi.  In ogni caso mi riesce difficile pensare che la congiura magiara possa spiegare la riduzione della strega a metafora, proclamata in un autorevolissimo congresso dell’IPA per bocca del suo autorevolissimo presidente o la vera e propria obliterazione dell’idea stessa di teoria generale, che, personalmente, ritengo assai più grave della dipartita della metapsicologia, con cui, a torto, viene evidentemente equiparata e confusa.

L’ argomentazione di R. Contardi poggia sull’assunto che  la strega  sia stata un’innocente, incolpevole vittima e che responsabile della sua mortificazione  sia stato l’improvvido incontro con la metodologia e la visione del mondo positivista americano, incautamente perseguita e voluta dai Menninger, dagli Hartmann e dai Rapaport. Non ho particolare simpatia nemmeno per quel mondo a stelle e a strisce, ma temo che l’assunto non sia così autoevidente, che la strega non sia stata né vittima né innocente e che il suo destino fosse invece già profondamente inscritto nel suo corredo genetico.
La psicoanalisi non ha avuto bisogno alcuno di navigare sino agli Stati Uniti per incontrare il positivismo e farsene avvelenare: nel positivismo, per di più nella sua più dura versione fisicalista, ci è nata! Il positivismo fisicalista era semplicemente il mondo scientifico del dottor Sigmund Freud, che nel laboratotio di Brücke, uno dei tre cavalieri della “Scuola fisica di Berlino”, era cresciuto e si era formato come ricercatore. Non è un reato. Non ci è dato scegliere né l’utero né la culla e quello era di necessità l’utero e la culla  della creatura di Freud, che, infatti, nell’incipit del Progetto scriveva: “L’intenzione di questo Progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili al fine di renderli chiari e incontestabili”. Contardi potrebbe obiettare che ciò avveniva “prima” dell’abbandono dei “neurotica”  e dell’effettiva nascita della strega, che, in quel “prima”, era solo in  “gestazione”. Di solito, però, il neonato che viene al mondo  è lo stesso “feto” che prima era in gestazione! Credo sia sufficiente anche una non troppo approfondita analisi storico-critica e teorico-critica delle tre tranches dedicate allo “strumento composito” nel VII capitolo della Traumdeutung per scoprire che l’apparato psichico del 1899 è il medesimo che era  stato abbozzato nel 1895, con qualche superficiale aggiustatura nella nuova trasposizione psicologica.  Il cervello “reale” che traspare, per quanto indeciso e nebuloso, nella filigrana dell’apparato psichico è il medesimo. Del resto, senza l’originario imprinting meccanicistico non sarebbe nemmeno pensabile un “apparato” come aggeggio ingegnieristico che produce il comportamento. Potrei aggiungere che persino il concetto di inconscio, deve la sua stessa possibilità di esistenza a quell’impianto, trova, infatti, la sua giustificazione teorica nell’assunto della continuità psichica. Questa non è né un fenomeno né un dato osservazionale, ma soltanto un postulato necessario a una teoria che si vuole deterministica, in cui i significati possano  essere considerati prevedibili in funzione di sequenze determinate di cause e di effetti, ciò che, in assenza di una determinazione cosciente, porta a supporre processi psichici inconsci per non interrompere la catena causativa. Del resto è sufficiente rileggere la paginetta iniziale di Pulsioni e loro destini (1915) per avere di prima mano conferma  del “positivismo” freudiano. Non è difficile intravedere in quelle righe l’inconfondibile profilo di Mach. Freud, del resto, poteva costruire la sua teoria dell’apparato soltanto servendosi della strumentazione concettuale, delle premesse epistemologiche e delle conoscenze disponibili nel suo mondo scientifico-culturale. Anche questo non è un reato, ma un’ovvia necessità sempre carica di limiti  e conseguenze, che un’accurata analisi  storico-critica potrebbe (e dovrebbe!) individuare nel profilo originario della strega e nel suo non lineare e contrastato sviluppo. Purtroppo, però, il mondo psicoanalitico ha sempre privilegiato la “storia”, specie se dotta e riverente, piuttosto che la fredda, ma più logica e più neutrale, indagine storico-critica.
Contardi potrebbe ancora obiettare che, anche dato e non concesso che una tale  struttura epistemologico-concettuale sia così profondamente connaturata alla metapsicologia, non si possa però negare che la prepotente  novità della teoria freudiana sia qualcosa d’altro e di diverso rispetto all’originaria impalcatura meccanicista. Vero! La potenza innovatrice della teoria freudiana non nasce  dal profondo sostrato positivista, cui deve soltanto la compiutezza e coerenza della sua struttura formale, che rappresenta, comunque, la prima organica organizzazione del campo concettuale e osservazionale per la costruzione di una psicologia clinica scientifica. La novità scaturisce, infatti, dall’oggetto inusitato che, con tale inadeguato e limitato armamentario epistemico e concettuale, Freud decise di esplorare, poggiando, da un lato, sulla fedeltà al modello, che lo costringe a costruire una teoria nei limiti della logica scientifica, ma restando dall’altro lato, fedele alla natura del suo materiale, che lo conduceva, per vie nuove, ben lontano dai sentieri ristretti del  positivismo. Per questo, del resto, il suo discorso, ha ancora una rilevanza per noi, che, pure, necessariamente dobbiamo muoverci secondo ottiche epistemologiche assai differenti e possiamo avvalerci di conoscenze che gli erano precluse.
La novità e la potenza euristica della strega non possono però nasconderne o minimizzarne i problemi, le incongruenze e le aporie, che ci sono e andrebbero riconosciute.
La metapsicologia nacque e assunse la sua forma pressocché definitiva nell’ultimo scorcio del XIX secolo nel bel mezzo del sopravvenire della crisi della meccanica classica, che cominciava a produrre, per dirla con Heisenberg, radicali “mutamenti nelle basi della scienza”. Di quella crisi, che metteva in discussione lo schema conoscitivo Soggetto-Oggetto e apriva la questione nuova del soggetto della scienza, la psicoanalisi non fu passiva spettatrice. Fu protagonista! Protagonista, ma anche, involontariamente, vittima.  Freud, nella sua scrivania di architetto costruttore della teoria  come nella sua poltrona di clinico, non poteva che collocarsi nell’ovvio e consolidato punto di vista del soggetto conoscente che osserva e conosce l’oggetto conosciuto. Ciò che tuttavia, suo malgrado, in tal modo osservava, dall’alto e dal punto di vista di Dio, seppur munito della necessaria indifferenz, - che prima che alla neutralità analitica disattesa da Ferenczi, rimanda a quella del ricercatore che guarda dall’oculare del microscopio - non erano  pezzi inesplorati della res extensa,  bensì, le viscere mai viste della res cogitans, la polta soggettiva dell’occhio, supposto oggettivo, dell’Io conoscente. Qui è il punto di nascenza della novità freudiana, ma anche del destino già scritto della metapsicologia. L’oggetto osservato (l’esperienza, il vissuto e le narrazioni di un soggetto) non era più un consueto docile e passivo “oggetto naturalistico”, ma un “(s)-oggetto-osservato-che-osserva”, con cui, a dispetto dell’indifferenz (e della “neutralità” analitica), - che volontaristicamente si provano a salvaguardare la linearità e pulizia dello schema Soggetto-Oggetto,  - non si può non interagire come non si può non comunicare. Lo decide la logica a prescindere da ogni teoria.  L’incompatibilità radicale tra l’occhio positivista e l’ “oggetto soggettuale” determina una non voluta, inevitabile, ma sostanziale, frattura epistemologica che segna sin dalle origini e dalle fondamenta la struttura della strega, interferendo profondamente, per quattro decenni, con il suo sviluppo,  dettando  le ricorsive crisi e lasciando   uno stigma indelebile, nella carne viva della costruzione teorica. E’ tale frattura, profondamente inscritta nel suo Dna, ma mai sufficientemente riconosciuta, la vera causa del destino della strega, delle sue debolezze  e del suo doloroso ma necessario venir meno.  
Nata  come disciplina naturalista e fisicalista, ma occupando di fatto lo spazio logico di una teoria del soggetto, senza poter dichiarare di esserlo e senza possedere una (a quei tempi inesistente) adeguata attrezzatura concettuale, la psicoanalisi si è presto trovata, infatti, nella sua costruzione e sviluppo, a sgomitare contro le strettoie del carapace fisicalista, che però ne costituivano il basamento e le colonne portanti (arco riflesso, stimolo esterno al corpo e all’apparato, energia psichica, realtà psichica vs. realtà reale, principio di costanza, punto di vista economico-dinamico sulla base dell’helmholtziano principio di conservazione, che definisce l’energia (in questo caso l’enigmatica “energia psichica”) come l’invariante in un processo di trasformazione, almeno teoricamente misurabile).
Questo costante sgomitare è leggibile nelle svolte e nei punti di crisi del suo sviluppo storico, in particolare in quelli relativi all’ala difensiva del conflitto, ma sopratutto nelle vicissitidini del concetto di “Io”, dapprima giustamente espunto, in accordo con l’ottica processuale, poi surretiziamente reintrodotto in termini pulsionali (pulsioni dell’io), quando già si profilava l’emergere del drammatico problema che le psicosi ponevano alla strega. Innanzi alla possibilità di dover sottoscrivere (con Jung) il crollo della teoria della libido o la sua dequalidicazione a teoria ad hoc per le nevrosi di transfert, Freud, che era bravissimo a trovare sempre un coniglio nel fondo del capello - (ne aveva già scovati almeno altri due: il concetto di fantasia inconscia, che sconfina già di parecchio nel mentalismo, e quello di transfert, che sopperisce con l’intersoggettività fossile oggettualizzata, all’incapacità della strega di cogliere l’intersoggettività attuale) - scova nel narcisismo e nell’Io narcisistico un coniglio davvero geniale, che gli consente con una ipotesi ad hoc (di questo si tratta!) di non gettare via la teoria della libido e di connettere lo schema originario libido-difesa a quello, logicamente più ampio, soggetto-mondo esterno. Freud sa benissimo che il concetto di libido narcisistica è un’ipotesi ad hoc, che poggia sulla distinzione puramente verbale tra libido dell’io  e interesse delle pulsioni dell’io. Non usa il termine, ma esplicita il senso in modo assai chiaro. Si trattava del resto di una manovra del tutto legittima  che,  consentendo di prendere tempo e di usufruire del vantaggio iniziale garantito dalle conoscenze ricavate nell’analisi delle nevrosi, avrebbe potuto portare a una modificazione dall’interno della teoria, che sembrava poter virare, grazie al narcisismo, in una direzione più prossima ad una teoria soggettuale. Freud ci andò molto vicino. Tra il 1914 e il 1917 il traguardo sembrava raggiungibile e, infatti, nella lez. 26  scriverà: “la psicologia dell’Io alla quale aspiriamo non deve essere fondata sui dati della nostra autopercezione, ma, come per la libido, sull’analisi dei disturbi e delle devastazioni dell’Io. E’ verisimile che quando quel maggior lavoro sarà compiuto, non terremo in gran conto la nostra attuale conoscenza dei destini della libido, attinta dallo studio delle nevrosi di traslazione”. Non Avvenne. Anzi addomesticato il narcisimo - (con qualche acrobazia tendenziosa, che sfiora talvolta la mistificazione e anche con qualche sorprendente incidente, come quando “dimentica” di aver appena segato le gambe della sedia su cui fa accomodare il Super introducendolo nel coro dei concetti!) - con la sua riduzione a pura vicenda pulsionale, la teoria divenne ancora più pulsionale e ancora più mentalista, alimentando, certo involontariamente, accanto a quella processuale, una seconda anima, omuncolare e intenzionale, che prese a circolare sottobanco come il fantasma nella macchina. Il fantasma, del resto, si poteva nutrire facilmente, della spiegazione  dell’intenzionalità inconscia in termini di fantasie e desideri, che implicano una direzionalità omuncolare e mentalista che mal si concilia, oltre che con l’impalcatura meccanicistica, anche con la logica, dato che presuppone la spiegazione dell’azione di una qualunque Maria, tramite la sua totalità stessa, ma miniaturizzata, omuncolarizzata e ridotta a fattore causante. Pochi hanno notato che la tendenza freudiana ad antropomorfizzare i processi - che si esprime nell’attribuzione  di scopi, intenzioni e strategie anche alle istanze, arbitrariamente, trasformate, così, in agenzie sub-soggettive - non è soltanto una cattiva abitudine o  una veniale trasgressione del rigore concettuale. Esprime, invece, una necessità, che ha la sua radice nel fatto che la teoria si trova a dover spiegare il comportamento di un soggetto,  senza poter essere una teoria del soggetto. I lettori meglio disposti nei confronti  di Freud, hanno interpretato tali ibride escrescenze come  una seconda anima umanistica, quelli meno ben disposti hanno preferito parlare, più brutalmente, di vitalismo, finalismo e mentalismo.  In realtà si tratta semplicemente di ammettere, che la teoria freudiana si configura dal punto di vista epistemologico, per la sua origine, che colloca il soggetto nella strettoia dell’asse soggetto-oggetto, come un  cripto-dualismo all’interno di un monismo dichiarato. Di fatto, per tutto il secolo XX, la psicoanalisi, in quanto scienza dei processi, che si occupa dei  vissuti e dei significati, si è trovata in bilico tra i due versanti del dualismo cartesiano e del muro diltheyano, non potendo rinunciare né alla sua vocazione scientifica né al suo oggetto soggettuale. Una scienza del soggetto sembrava, infatti, impensabile e la psicoanalisi, che, per natura e posizione logica, non può essere, che una scienza della soggettività, ha scontato l’errore di Cartesio, fungendo da ghiandola pineale tra la scienza riduzionista della res extensa e la scienza ritenuta impossibile della res cogitans.

L’esito, certo non previsto e non voluto, della ricerca rapaportiana, rivela semplicemente la nudità del re, che alla fine giunge al pettine: la strega per poter garantire i suoi sortilegi conoscitivi, deve presupporre un cervello che appare assai differente dal “cervello reale” che, nella seconda meta del secolo XX, si cominciava a conoscere assai meglio di quanto non consentissero i rudimentali neuroni e i non più necessari assunti del fisicalismo, da cui la teoria aveva preso le mosse. I Rubinstein, gli Holt, i Gill e i Klein non fecero se non quello che deve fare ogni ricercatore scientifico e che Freud stesso al loro posto avrebbe forse fatto secondo l’ epistemologia e metodologia dichiarate  nel 1915. Il concetto di energia psichica, - (che fa semplicemente il verso  al concetto fisico di energia nella struttura logica e nella “funzione” teorica) - e il principio di costanza,  sono il graspo che regge tutto il grappolo. Non potevano che tagliarlo come è necessario fare con qualunque ipotesi che si dimostri erronea. Proprio la loro vicenda, però, conferma  che il problema era più profondo rispetto alle debolezze teoriche della strega in quanto profondamente inciso nelle sue fondamenta e nella difficoltà a coniugare le sue due anime meccanicista e mentalista.  Pur stabilendo infatti la necessità di una riformulazione teorica, essi non passarono indenni tra Scilla e Cariddi. Ci fu chi come Rubinstein e Holt preferì lasciarsi abbracciare dalla Scilla riduzionista e chi come Gill e Klein sprofondò nella Cariddi mentalista.
Credo però che sia ingeneroso addebitare ai rapaportiani la mortificazione della strega. La falsificazione di una teoria non è disfatta né fallimento, ma semplice presa d’atto dei suoi assunti  erronei (energia psichica) o del suo non rendere conto di nuovi dati resisi disponibili - basterebbe pensare alla differenza, che già negli anni sessanta era diventata evidente, tra il “bambino analitico” e quello “reale”! - o frutto dell’esaurimento della sua potenzialità euristica. Una teoria è una rete per pescare  “pesci-verità” (Popper),  ma, sopratutto nelle fasi iniziali e formative di una disciplina scientifica,  giunge facilmente a un punto in cui altro non riesce a pescare se non i sottoprodotti di se stessa. E’ il momento di consegnarla alla storia e di darsi da fare per produrne una nuova che spieghi i vecchi dati dando ragione dei nuovi. Da questo punto di vista la “morte” di una teoria è altrettanto importante e creativa quanto la sua costruzione. Le teorie non sono dogmi. Non asseriscono “verità”. Sono strumenti per conoscere congetturalmente qualcosa di non conosciuto e di non immediatamente conoscibile. Al contrario delle teologie, poggiano sull’ignoranza, non sulla verità e, nel processo conoscitivo, nascono per morire. La fine gloriosa di una buona teoria è di morire partorendo una nuova più potente teoria. Alla teoria freudiana questa fine gloriosa è stata negata dal mondo psicoanalitico che, per non dimenticare il suo fondatore, - “il padre che non doveva morire” diceva Wallerstein, l’ “autorevolissimo presidente” - ha preferito, in nome di una malintesa fedeltà riverente, perdere se stessa, tradendo il compito e l’impresa di continuare a perseguire da apripista la costruzione della psicologia clinica come disciplina scientifica, che proprio il suo fondatore aveva avviato con l’ormai falsificata, ma organica ed euristicamente potente teoria. Il risultato è che oggi la psicoanalisi è una pratica clinica senza una teoria che la giustifichi e che ne promuova e guidi la ricerca e lo sviluppo.  Inconscio, transfert, resistenza e difesa, promossi a teoria per decreto e volontà popolare, affondano, infatti,  radici, tronco e rami nella carne e nel sangue, ormai improduttivi, della strega.
Il lavoro di Contardi è comunque apprezzabile  (come è apprezzabile la coraggiosa impresa teorica di  F. Riolo) non fosse altro perché si occupa di un problema vero al contrario dell’imperante, fastidioso, inutile clinicismo. Certo! Questi studi sarebbero stati assai più efficaci e utili 40 anni fa, ma allora non c’era chi li scrivesse e sopratutto chi li pubblicasse. Del resto, cantare fuori dal coro è cosa assai ardua ancora oggi.

Testo presentato a Verona il 17. 10. 2015

 

Allinizio della mia attività professionale ero convinto che, per stare attentamente sul pezzo, dovessi con ogni cura tenere una sorta di aggiornato registro del trattamentoin cui annotare diligentemente, seduta per seduta, ogni accadimento, parola, sogno, associazione del paziente. Avevo pochi pazienti, molto tempo, scarse sicurezze e tantissima energia, dunque, scrivevo, scrivevo e scrivevo, ma raramente avevo tempo e modo di leggere quanto avevo scritto. Forse, da qualche parte, ci sarà ancora quel brogliaccio di fogli fitti fitti di scrittura. A quel tempo ero troppo preoccupato della necessità di tenere a mente tutto e, conseguentemente, troppo occupato a scrivere! In realtà tutto quello scrivere serviva, più che altro, a tenermi al riparo dallinevitabile ansia del principiante. Ci volle del tempo per rendermi conto che questa puntigliosa attività amanuense non era necessaria e che era meglio fidarsi semplicemente della memoria.

Ciò che serve per una buona e attenta attività clinica, da questo punto di vista eminentemente tecnico, è altra cosa: serve unattenta, compiuta e progressiva analisi del caso e, dunque, è necessario acquisire questa competenza ed esercitarsi in questo compito. Nella mia attività di supervisione ho spesso potuto osservare che la lacuna maggiore lasciata dalla scuola di specializzazione nellarmamentario tecnico dei neo-diplomati è proprio  una scarsa formazione, competenza, attenzione e motivazione a compiere lanalisi del caso. E una spiacevole conseguenza del modo in cui solitamente è trattata in classe la mole (spesso inutilmente esorbitante!) di materiale clinico offerta dagli insegnanti di tecnica, che finisce per privilegiare la singola situazione clinica invece che la visione più complessiva e lanalisi particolareggiata. La supervisione didattica, inoltre, può difficilmente colmare questa lacuna perché il supervisore si assume (o finisce comunque per accettare di assumere) il ruolo di colui che tiene il timone e governa la navigazione.

Non ho mai scritto nulla su questo punto né ho mai avuto modo di approfondire il problema a scopi illustrativi o didattici, - la mia esperienza didattica ha sempre riguardato lambito teorico o teorico-tecnico - posso quindi semplicemente attingere alla mia esperienza, cercando di mettere in parole ciò che la mia mente fa, quasi automaticamente, quando si trova innanzi al caso.

Mi preme precisare subito un punto: è necessario distinguere accuratamente lanalisi clinica del caso dallo studio teorico-clinico sul caso.

  • Lanalisi clinica del caso non ha finalità di studio o di ricerca teorico-scientifica e non deve averla. Ha una pura e semplice finalità terapeutica: serve a orientare il lavoro clinico, a stare sul pezzo e dentro al caso, a favorire lassetto interno ottimale, oltre che a fungere da orientamento di massima nella scelta del materiale su cui intervenire e sul come intervenire. Lanalisi clinica del caso serve cioè soltanto a comprendere Maria.
  • Lanalisi teorico-clinica sul caso ha, invece, una finalità del tutto differente e si ripropone, a partire dallo studio critico delle teorie esistenti e dallesame del materiale clinico, di migliorare questo o quel punto di una teoria esistente o di giungere a definire e precisare la strumentazione concettuale o anche a disegnare un semplice concetto nellintento di modificare un asserto teorico, di perseguire una sua differente e più precisa formulazione o - se si è in un momento di crisi o assenza di teoria come questo - di giungere a formulare ipotesi più ragionevoli rispetto a questo a quel nodo teorico o persino di giungere a una catena di ipotesi che portino a una teoria più definita. Lanalisi teorico-clinica non serve a comprendere Maria ma a conoscere, concettualizzare e spiegare meglio i comportamenti e i vissuti di tutte le Marie.

Enecessario non confondere e non sovraporre questi due livelli dindagine: il primo è eminentemente pratico, tutto attento alla singolarita del singolo caso e ha come scopo laccuratezza e preoccupazione tecnica e professionale nel trattamento di quel singolo caso. Il secondo, invece, è specificamente conoscitivo e mira, dunque, non al singolo caso, ma alla generalità dei casi, è astratto invece che concreto, non si riferisce primo e per sé al vissuto di Maria, ma a quello della mente in generale, la mente di tutte le Marie e di tutti i Giacomi.

I due livelli di indagine hanno anche un differente rapporto con la teoria, con il pensare teorico e con lereditàteorica del passato.

Spesso si sente dire che il corretto atteggiamento terapeutico deve essere libero da filtri teorici, da precomprensione, memoria e desiderio e, a questo proposito, si cita volentieri Bion e si raccomanda una disposizione interna tesa a vedere in maniera immediata ciò che è” e, parafrasando appunto Bion, si ripete spesso che Bisogna essere liberi da comprensione, da memoria e da desiderio per liberare lintuizione dalle opacità che la offuscano, per vedere le cose come sono e non come ci aspettiamo che siano, in un atteggiamento di sospensione e distacco critico. Temo che laspirazione a questa libertà interna sia del tutto illusoria. In seduta così come nellesame più a freddo del caso clinico, che ne siamo o no consapevoli - ed è meglio esserne consapevoli - non possiamo sottrarci allazione pervasiva di tre filtri teorici:

  • Il primo filtro è quello della teoria che ufficilmente diciamo di seguire, se riteniamo di averne una, ma, da questo punto di vista, anche il non avere una teoria- o lesplicita rinuncia a ogni teoriaè una teoria e un filtro, forse forse anzi il filtro più pericoloso, perché finisce per lasciare il terapista in preda alle sua teorie implicite;
  • Il secondo è quello delleredità storica dei vari strati di teoria che ci hanno preceduto, che si sono sedimentati come una sorta di conoscenza ovvia, la quale facilmente ai nostri occhi può diventare ciò che effettivamente è” o le cose come sono;
  • Il terzo filtro, infine, è quello della nostra teoria più privata e personale che anzitutto modella già il racconto quotidiano della nostra esperienza e del nostro vissuto, ma che silenziosamente e nascostamente veste di soggettivo quanto ci appare macroscopicamnente oggettivo.

Sia che abbiamo una teoria consapevolmente accettata, con i vati gradi di sicurezza possibile, sia che ci riferiamo più genericamente, date le condizioni del nostro tempo, a una concezione che si riferisce piuttosto a una costellazione di teorie differenti stratificate nella nostra memoria culturale e scientifica, nellanalisi del caso, è necessario un franco atteggiamento critico per contrastare la precomprensione teorica, che deriva da queste concezioni e conoscenze la cui solidità è quantomeno dubbia e datata.

Nellindagine teorico-clinica sul caso, invece, il fuoco dellattenzione è proprio sulla teoria sia nel senso degli asserti, che ci sembrano insufficienti e da criticare sia nel senso delle nuove formulazioni, che cerchiamo di vagliare per verificare se e come rendano conto del materiale clinico in esame.

Alla luce di quanto ho appena detto, distinguiamo, dunque, lanalisi clinica del caso dallindagine teorico-clinica, in cui per esempio cerchiamo di verificare lutilità di un concetto, (come potrebbe essere il concetto di vincolo), nella spiegazione del comportamento e del vissuto di Maria.

Per condurre unanalisi clinica del caso, di qualunque caso, è necessario:

  1. disporre scrupolosamente sul tavolo tutti i dati di cui disponiamo;
  2. riflettere sulle loro relazioni e sulla loro congruenza o incongruenza;
  3. osservare se in questo mosaico ancora informe di dati esistono lacune cioè se, a riguardo di punti importanti, manchiamo, per un motivo o per un altro, di informazioni;
  4. verificare se è possibile accorpare tutti i dati secondo un disegno coerente o, come è più probabile, per gruppi di dati che mostrano coerenza e parentela, osservando invece lincoerenza tra gruppo e gruppo;
  5. Vedere se è possibile formulate unipotesi generale o parziale o se è possibile formulare ipotesi tra loro alternative;
  6. Avere a disposizione una bella riserva di punti interrogativi, che potremo e dovremo collocare, convenientemente e prudentemente, a ogni passo di queste operazioni successive.

a. I dati. Per poter disporre sul tavolo tutti i dati di cui disponiamo, è necessario avere presente nel modo più chiaro e preciso possibile la storia del soggetto. Concretamente bisogna disporre di una buona narrazione complessiva, che, in genere si può acquisire nei colloqui preliminari, cui occorrerà man mano aggiungere le acquisizioni successive. Per imparare ed esercitarsi allinizio può essere utile scrivere ed è quello che in realtà si fa quando si deve portare un caso in supervisione. Dopo un certo allenamento però può essere sufficiente servirsi semplicemente di un foglio di carta in cui disporre per accenni i dati significativi servendosi di segni grafici per fissare le relazioni (frecce, parentesi, connessioni, frecce oppositive). Se si tratta dellanalisi iniziale, questo sarà sufficiente. Se, invece, si tratta di ripresa di analisi del caso nel corso della terapia, sarà anche necessario tenere, per così dire su un altro tavolo, i dati relativi alla storia della terapia e i dati relativi alle caratteristiche della relazione terapeutica, osservando congruenze e incongruenze rispetto ai dati generali della storia del soggetto. Nel laboratorio di Verona in cui abbiamo studiato un singolo caso per quattro anni circa abbiamo continuamente confrontato i dati generali della storia di S e quelli man mano emergenti nella sequenza delle sedute, con le caratteristiche della relazione terapeutica e con quanto  andava concretamente accadendo nella relazione.

Un ruolo particolare nella disposizione dei dati devono trovare:

  • Traumi (e in alcuni casi di nevrosi più specificamente traumatica il trauma dovrà avere una collocazione focale!)
  • Sequenze traumatiche
  • Punti di svolta sia indicati dal paziente sia valutati o inferiti dal T.
  • Vincoli sia superficiali sia, se è possibile, sottostanti.

b. Tono edonico e modulazione del vissuto

Un elemento assai importante da collocare come sfondo di questa costellazione di dati è la valutazione del tono generale dellumore del paziente sia nel vissuto complessivo e globale (S si sente complessivamente gioiosa? Allegra? Serena? Triste? Depressa? Ansiosa? Insicura? In perenne conflitto?...) sia in rapporto a determinati accadimenti e quali. La sua valutazione si riferisce allintero arco di vita oppure ci sono state delle differenze e, supponiamo, a uno stato dellumore sereno, che è stato stabile per un arco temporale ne è seguito un altro che è stato stabile per un successivo arco temporale? Quando si sono verificati tali eventuali cambiamenti? In rapporto a quali avvenimenti o a quali modificazioni nello scenario naturale di vita?

A partire dallo stato generale dellumore, S è capace di sperimentare stati emozionali positivi? Di apprezzarli? Di perseguirli attivamente? In quali ambiti? (valutazione della capacità edonica) oppure le esperienze tendono ad avere un colore e un sapore per lo più neutro e incolore, noiosamente insipido e poco soddisfacente? In questo caso S quanto e come è in grado di attivarsi per perseguire stati piacevoli?

Ancora a partire dallo stato generale dellumore, nei casi di pesanti cadute in negativo o di possibili cadute in negativo S è capace di agire efficacemente ed attivamente per modulare tale stato negativo? in che modo? attrraverso quali attività? In questi casi, in che modo sa utilizzare la funzione riflessiva? instaurando un dialogo interno? mediante un esame di realtà? relativizzando? o cerca semplicemente di uscire dallimpiccio girando pagina o cercando un altro chiodo con cui scacciare il precedente?

c. Congruenza e incongruenza. Eragionevole pensare che una persona che chiede una terapia abbia un vissuto di sofferenza relativo a problemi che riguarderanno la gestione di un qualche campo della sua esperienza personale, relazionale, lavorativa e che queste sofferenze rimandino a lacune, fratture, conflitti nella sua organizzazione e nel suo vissuto più o meno consapevole. Si può ragionevolmente presumere che indicatori importanti di tali fratture, lacune e conflitti siano le varie tipologie di congruenza\incongruenza che possiamo rilevare nella sequenza delle sue vicende e tra i dati e gruppi di dati che possiamo isolare nella nostra collezione.

Si possono distinguere diverse tipologie di congruenze\incongruenze:

  • Congruenze\incongruenze interne alla storiariguardanti eventi, fatti e scelte del soggetto.
  • Congruenze\incongruenze tra narrazione dei fatti e narrazione del vissuto
  • Congruenze\incongruenze (denunciate o inferite dal T) tra gruppi di dati
  • Congruenze\incongruenze tra narrazione della storiae accadimenti nella terapia
  • Congruenze\incongruenze tra storia, accadimenti in terapia e relazione terapeutica.

d. I grandi parametri della vita psicologica.

La collezione dei dati, la tonalità di fondo dellumore e la sua modulazione attiva o no da parte di S e infine questa prima organizzazione in termini di coerenza\incoerenza, potranno consentire una prima visione più sintetica da cui si potrà procedere con un ulteriore e più astratto livello di analisi che potrà essere realizzato, leggendo la storia del caso i dati e le varie tipologie di congruenze\incongruenze rilevate alla luce dei grandi parametri generali della vita psicologica e cioè:

  • Attività-passività
  • Interno - esterno
  • Autonomia - dipendenza
  • Autostima autodisistima
  • Depressione - euforia

e. Un disegno coerente?

Compiuto questo lavoro analitico potrebbe accadere, e in una parcentuale significativa di casi di più semplice lettura effettivamente accade, che si disegni spontaneamente un disegno verosimile (o verosimilmente coerente) del profilo di personalità in senso sia sincronico e relativo, dunque, allorganizzazione e al funzionamento attuale, sia in senso diacronico e relativo, dunque, alla linea di sviluppo, al come S è arrivata a funzionare così”. Si dovrà comunque vagliare se questa linearità sia effettiva o sia soltanto frutto di unanalisi troppo superficiale e, dunque, sia dovuta alla quantità insufficiente di dati o a una lettura troppo teoricae semplificante. Se i dati sisponibili sono ragionevolmente completi e significativi - in virtù di una maggior trasparenza o di una maggiore capacità di autolettura e di narrazione del paziente e comunque di una più approfondita anamnesi - forse più che un unico e lineare profilo ipotetico si potranno invece disegnare due o tre possibilità di profilo la cui verosimiglianza e i possibili intrecci si dovranno vagliare con il procedere del lavoro.

In altri casi, anche dopo mesi di lavoro, potrebbe invece accadere che i dati restino disordinati ed eterogenei e non si riesca a far emergere un qualche disegno lineare. Sono i casi più complessi e problematici.

f. Ipotesi descrittiva (provvisoria)

Il passo successivo è quello di provarsi a formulare unipotesi descrittiva, che dovrà sempre essere considerata provvisoria, che potrà suggerire anche unindicazione per lazione terapeutica sia in termini di assetto interno del terapista sia anche in senso operativo nella scelta sequenziale del materiale su cui lavorare e sul modo in cui lavorarci.

La riserva dei punti interrogativi dovrà essere convenientemente e prudentemente utilizzata a ogni passo di queste operazioni successive.

E’ stato appena pubblicato un libretto che ha  un certificato di nascita (e una storia!) particolare: pur essendo neonato, ha già circa 40 anni!
Per  un ventennio, tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’90, a Roma e successivamente a Brescia, ho tenuto un corso triennale sulla struttura e sviluppo della teoria psicoanalitica, che poggiava sulla lettura diretta delle opere di S. Freud. Il corso si riproponeva di introdurre gli allievi a  una conoscenza non superficiale della teoria, incoraggiandoli alla lettura progressiva del corpus freudiano.
Nella mia lunga attività didattica ho sempre scritto in modo compiuto le lezioni. Quelle di quel corso erano vergate su dei semplici fogli A4, con grafia minuta, (consentita da una bic punta fine rigorosamente nera!), successivamente riversati in un file, grazie a un primitivo  programma di scrittura, antenato di Word, che si chiamava, credo, Wordstar.
Spesso allievi, amici e compagni di viaggio mi hanno invitato a rispolverare quei vecchi appunti, chiedendomi di renderli disponibili come strumento di studio. Altre priorità me ne hanno sempre distolto. Oggi, probabilmente in un momento non così opportuno, ho avuto modo di accondiscendere alla loro richiesta senza troppa fatica.
Nato dalla didattica e per la didattica, il testo può essere utile come maneggevole filo d’Arianna per chi desideri entrare  nell’orizzonte della psicoanalisi, passando per la porta principale della lettura delle opere freudiane o anche, più semplicemente,  servendosi di una puntuale, sintetica ricostruzione  del progressivo emergere dei concetti, dei nessi e degli snodi teorici nella concreta parabola storica   della ricerca freudiana.
Il testo ripercorre la fase costruttiva della teoria dalla formazione e dalle prime pubblicazioni del giovane Freud sino alla formulazione già adulta della teoria  nel 1899 (Interpretazione dei sogni) e nel 1905 (Tre saggi sulla teoria  sessuale). Particolare attenzione, in un intermezzo storico-critico, è dedicata all’intera vicenda del narcisismo che, in un momento di grave crisi teorica, sembrava promettere  una riscrittura rivoluzionaria della teoria. Rivoluzione che, come è noto, non avvenne. La seconda parte ricostruisce, invece, l’effettivo processo di riformulazione teorica nei termini della teoria tripartita (Es, Io, Super-io) sino alla nuova teoria dell’angoscia e agli ultimi contributi.
In coda al libretto propongo anche quella che, a mio giudizio, può essere ritenuta la bibliografia essenziale per lo studio della teoria freudiana, per quanto attiene alla sua formazione, sviluppo e struttura, ma con un occhio attento anche allo stato attuale della teoria e alle sue prospettive future.
Il punto di vista prescelto è prevalentemente storico, salvo che nella trattazione dei narcisismo, che si avvale più esplicitamente di un punto di vista anche storico-critico. La scelta di questo punto di vista più semplice e la limitazione imposta alle argomentazioni critiche, derivano da ragioni che erano, al tempo, squisitamente didattiche, ma che tornano buone anche in questa riproposizione, che resta lineare e non appesantita da eccessive analisi critiche.
Il testo, a parte qualche piccolo aggiustamento formale, è quello originario delle vecchie cartelle manoscritte. Pubblicandolo, spero di fare cosa gradita ai miei molti ex-allievi e cosa utile a chi volesse addentrarsi nelle viscere della teoria psicoanalitica con sano atteggiamento storico-critico e teorico-critico.
 Il libro è pubblicato secondo la formula  Book on demand e può essere facilmente ottenuto richiedendolo direttamente on line all’editore, ma può anche  essere richiesto ai principali bookstores on line, alle librerie o magari anche al giornalaio sotto casa, che voglia essere gentile.

Gian Paolo Scano, (2020) LEGGENDO FREUD: nascita costruzione e sviluppo della teoria psicoanalitica, Susil Edizioni. Il link per la richiesta diretta all'editore è: https://susiledizioni.com/libri-ed-ebook/libri-pubblicati/anno-2020/leggendo_freud--507.html