Ho già notato che Freud parlando per primo di comunicazione inconscia, in realtà, non esce dal suo quadro. Quando invece, seguendo la deriva Ferenczi, Reich, Klein, Bion, Ogden e successivi, questa tematica si innesta sul quella del controtransfert, deborda dal quadro teorico clinico e tecnico freudiano, perché sulla base della comunicazione inconscia, il controtransfert diventa fonte di dati utilizzabili per ottenere degli insight. Ciò è stato poi categorizzato da Ogden in modo del tutto esplicito come elemento chiave della sua identificazione proiettiva. Questa nozione, indubbiamente ma poco comprensibilmente fortunata, ha un ruolo chiave in questo discorso, perché ha sdoganato l'idea di un passaggio diretto di contenuti da mente a mente, diventando così la matrice generalizzata delle concezioni correnti sulla comunicazione inconscia. Ma è davvero possibile e pensabile un passaggio diretto di dati e contenuti dall'inconscio del P al T?

Qui è la vera pietra d'inciampo! Se si prende la comunicazione inconscia nel senso forte in cui la utilizzano Ogden e quanti si servono del concetto di identificazione proiettiva si chiamano in causa i tre punti qualificanti del dibattito contemporaneo sul transfert e cioè:

  1. I transfert sono da intendere come vissuti e percezioni distorte e distorsive del paziente, oppure come inferenze plausibili basate sugli indizi disseminati invariabilmente e necessariamente dall'analista?
  2. L’analista è da intendere come uno specchio neutro - schermo bianco nella terminologia americana - in cui si riflettono le proiezioni fantasmatiche del paziente o come coinvolto in un’effettiva interazione con il paziente?
  3. Infine, il controtransfert può essere considerato sorgente d’informazioni sul paziente?

Se prendiamo in mano per concretezza il caso clinico esemplare di cui si serve Ogden per illustrare l'identificazione proiettiva, si può facilmente verificare in che modo questa incrocia la questione su cui stiamo riflettendo. Se la situazione di stallo, nel caso del signor K, è, infatti, causata dalla sua fantasia inconscia di avidità, il suo vissuto deve essere considerato spontaneo e distorsivo e se il vissuto del terapista è indotto dalla proiezione, allora egli deve poter essere considerato uno specchio neutro, in cui la fantasia del signor K si può chiaramente riflettere ed essere riconoscibile come propria di K e non del terapista, il quale, proprio a partire da questa distinzione, può ritenere di ricevere informazioni sul vissuto del paziente e decidere che è in atto un’identificazione proiettiva, mossa da una fantasia inconscia del P. Non solo. Tutto questo potrà avvenire solo se si presuppone che ci sono, nella terapia, situazioni, in cui non ci sono né fantasie inconsce né proiezioni né pressioni interpersonali o, più in generale, situazioni in cui il P è libero da ogni influsso da parte del terapista e questi del tutto libero da influsso da parte del P. Tale presupposizione, che è la base stessa della congettura dell’identificazione proiettiva come fenomeno specifico, implicherebbe, da un lato, che esistano, in una terapia, degli spazi non interattivi, e, da un altro lato, che sia pensabile un vissuto come prodotto di una mente isolata e libera da ogni influsso.

Fu Gill a porre con nettezza il problema dello specchio neutro e quello, conseguente, dell’impossibilità logica di intendere il transfert come vissuto autoctono, distorto e distorsivo. Egli mostrò che le ragioni, che inducono a escludere la nozione di specchio neutro, non sono di natura tecnica né teorica, ma piuttosto logica e fattuale. Se, come egli affermava, “l’interazione è intrinseca alla procedura” (Gill, 1994), il terapista non può non interagire in virtù della sua posizione nel cerchio intersoggettivo, che lo porta inesorabilmente a interagire anche quando egli scegliesse di farlo ...non interagendo. Quest’argomentazione di fondo si pone come cruciale, nei tre punti caldi del dibattito sul transfert appena elencati ed è ormai riconosciuta incontestabile, sulla scorta di Gill, dalla più parte degli autori teoricamente più avveduti. Eagle, per esempio, in un argomentato saggio sul transfert e il controtransfert, rileva che il cambiamento nella concezione e definizione del transfert “fa seguito all'affermazione più sostanziale secondo cui nessun analista, e se per questo nessuna persona, può realmente funzionare come uno schermo bianco. In qualunque possibile interazione umana, tutti i partecipanti disseminano di continuo indizi ai quali ciascuno degli altri reagisce. Partendo da questo punto di vista, l'interazione transfert-controtransfert diventa essenzialmente equivalente all'interazione paziente-terapeuta” (Eagle M. N., 2000). Esattamente come Ogden non sa resistere alla tentazione di intendere l’identificazione proiettiva come un fenomeno, così la psicoanalisi non ha mai dubitato, - nonostante la discordanza netta di Rapaport, - del fatto che il transfert sia un fenomeno. Questa convinzione poggiava, appunto, sull’asserto auto-evidente, secondo cui, alla radice dei fenomeni transferali, fosse chiaramente identificabile l’azione causativa di un fantasma. Se, però, l’analisi della comunicazione e interazione umana impone di considerare, che non si può non interagire, così come non si può non comunicare, allora, anche nell’ambito della seduta e dell’interazione terapeutica, si avrà inesorabilmente a che fare con una costante interazione, in cui ogni azione sarà co-determinata dai due attori. L’interazione, infatti, non è un gradiente che l’analista può modulare, aumentare o diminuire secondo valutazioni concernenti la situazione o il quadro psicopatologico del paziente. Ciò che può variare, rispetto a questi o ad altri parametri, è solo la sua attività o la scelta delle procedure. L’inesorabile onnipresenza dell’interazione, è, invece, un inevitabile e insopprimibile corollario del fatto che la terapia si fa in due, in una situazione, inevitabilmente, intersoggettiva, in cui non si può non interagire. Se però l’interazione è caratteristica insopprimibile di ogni relazione umana, allora tanto il transfert quanto l’identificazione proiettiva e più in generale anche la comunicazione inconscia, non possono essere collocate nella classe dei fenomeni, ma in quella delle teorie che spiegano fenomeni. Di più. Se come, riconosce Eagle “l'analista non può evitare di disseminare l'ambiente di indizi”, che inesorabilmente influiscono sui significati costruiti dal paziente e se “l'analista non può fare a meno di reagire al paziente seguendo una modalità personale” allora, in nessun caso, “l'analista può realmente funzionare come uno schermo bianco, a prescindere dal fatto che un tale modo di funzionare sia utile e desiderabile oppure no”.

Ci si può adesso chiedere perché Ogden, ma in definitiva tutta la galassia che fa riferimento alla comunicazione inconscia in senso stretto si imbarchi, in questa scivolosa navigazione. E' la seconda "pietra d'inciampo" sulla cui natura è Ogden stesso a informarci.

Già nelle prime pagine del suo libro egli precisa che “L’identificazione proiettiva non è un concetto metapsicologico" e i fenomeni, cui essa si riferisce, esistono nel regno dei pensieri, dei sentimenti e del comportamento e non in quello delle formulazioni astratte. E’, dunque, un concetto che descrive, non congetture astratte, ma fenomeni osservabili nella quotidiana esperienza.

Poco più avanti, Ogden, malgrado tale netta affermazione iniziale, sembra attutirne la portata, lasciando involontariamente trasparire dietro la semplificante concretezza, un nodo assai più complesso. Egli, infatti, spiega che: “con identificazione proiettiva in parte si intende la descrizione di una interazione interpersonale (la pressione di una persona su un’altra per soddisfare una fantasia proiettiva); in parte si intende anche la descrizione dell’attività mentale di un individuo (le fantasie proiettive e introiettive, il processo psicologico). Più precisamente, però, si tratta delle descrizioni dell’interazione dinamica di due elementi: l’intrapsichico e l’interpersonale”.

E, dunque, il presunto fenomeno, almeno per una metà, è un concetto dichiaratamente metapsicologico (“la descrizione dell’attività mentale di un individuo”) mentre, per l’altra metà, si pone come “la descrizione di una interazione interpersonale” e anzi, più precisamente, diventa “la descrizione dell’interazione dinamica di due elementi: l’intrapsichico e l’interpersonale”. Per quanto si voglia allargare la nozione di fenomeno, è arduo pensare che la descrizione della dinamica tra l’intrapsichico e l’interpersonale, - qualunque cosa essa sia, - possa essere definita un fenomeno. Ogden si affretta anche a spiegare da dove nasca la necessità di quest’operazione d'ingegneria concettuale. Egli precisa, infatti, che “l’uso delle numerose proposizioni psicoanalitiche esistenti è limitato, in quanto queste servono esclusivamente per designare l’area intrapsichica e non riescono a costituire un ponte tra questa e le interazioni interpersonali, che invece forniscono il materiale principale della terapia”. La spiegazione ha il merito di toccare più da vicino la sostanza della questione, cominciando ad ammettere che l’identificazione proiettiva è un costrutto concettuale, che mira, non soltanto a descrivere e spiegare un presunto fenomeno, ma anche a risolvere un problema teorico e cioè il fatto che la teoria psicoanalitica intrapsichica per sua natura non dispone di strumenti per leggere le interazioni interpersonali, ha solo elementi che le consentono di leggere l'intrapsichico e, dunque, si rendono necessari dei concetti e un innesto teorico, che possano fungere da "ponte" tra questi due domini.

Ogden, un po' ingenuamente, tratta di fenomeni che avvengono nell'area intrapsichica e di fenomeni che avvengono nell'area interpersonale. Il fatto è che non esiste alcuna area intrapsichica come dominio di fenomeni né un’area interpersonale, in cui avvengono altri fenomeni. Tali aree non esistono in natura, come spazio, in cui possono registrarsi accadimenti o cose. Possono esistere nell’occhio e nella mente dell’osservatore, che le crea, ritagliandole dalla totalità del comportamento come campo congetturale di fattori. L’area intrapsichica esiste, quindi, solo in quanto determinata e ritagliata da un punto di vista intrapsichico, che, per la verità, nell’intenzione di Freud, non disegna la porzione intrapsichica della torta del comportamento, ma riduce il caotico mondo dei vissuti soggettivi e intersoggettivi al quadro dei fattori considerati effettivamente causativi, approntando una rete di concetti (intrapsichici), che devono rendere conto di tutta la torta e, dunque, anche dei fenomeni, che Ogden vede avvenire nel dominio interpersonale. Egli, forse involontariamente, porta un ulteriore argomento, proveniente non da astratte analisi teorico-critiche, ma dalla concreta pratica clinica, per dimostrare l’insufficienza di quel punto di vista e della torta da esso disegnata, ma la sua toppa ottiene il non brillante risultato di contribuire a tenere in vita apparente un paziente clinicamente morto, che, con accorgimenti vari, può, da lontano, sembrare ancora vivo, come accadeva all’ingombrante cadavere di Weekend con il morto. E’ stata un’interminabile sequela di accorgimenti e di toppe di tal genere a impedire alla metapsicologia freudiana un’onorevole morte e alla psicoanalisi di possedere oggi una teoria coerente.

La toppa dell’identificazione proiettiva è approntata con l’utilizzazione di una singolare epistemologia, che caratterizza frequentemente la spiegazione psicoanalitica. Tale epistemologia consiste nell’assunto secondo cui lo psicologico (l’intrapsichico, l’intersoggettivo, l’interpersonale, lo psicosociale …) è da considerare come un effettivo campo di realtà, costituito, in quanto tale, non dalla delimitazione operata dall’osservatore, ma dalla natura oggettiva dell’osservato. In questo campo di realtà oggettivato, i concetti non rendono conto di fattori, ma descrivono cose (identificazioni, proiezioni, transfert…), considerate esistenti allo stesso modo in cui esistono gatti, neuroni e succhi gastrici. Così accade che le cose, costruite dai concetti, acquistino un’evidente ancorché virtuale consistenza fenomenica, che spiega e giustifica, con i milioni di dati della clinica, i concetti, da cui sono state costruite. In tal modo, identificazioni, proiezioni, identificazioni diventano cose che non solo esistono davvero nella testa delle persone, ma si possono anche sputare fuori o portare dentro. Questa bizzarra epistemologia trascura di considerare che i concetti, nell’ambito della spiegazione psicologica del comportamento soggettuale e intersoggettuale, non possono riferirsi che a fattori e processi, che sono congetturati e inferiti per spiegare l’unico incontestabile fenomeno costituito proprio da quelle “interazioni interpersonali”, che non forniscono semplicemente “il materiale principale della terapia”, ma sono il fenomeno della terapia, cioè quanto le teorie dovrebbero e devono spiegare.

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