Non è necessario spendere troppe parole per sottolineare l’importanza e centralità del sogno nella clinica, nella tecnica e nella teoria psicoanalitica, che nasce, già adulta, dall’analisi della procedura attraverso cui si assemblano e costruiscono i significati del sogno che funge da epistemico buco della serratura per spiare i meccanismi e le dinamiche dell’apparato psichico. Freud era certo che i significati rinvenuti con l’esercizio del metodo psicoanalitico devono essere considerati speciali, originali, sorgivi, più veri di qualunque credenza cosciente noi si abbia riguardo a noi stessi. Il sogno infatti è la via regia verso l’inconscio e si pone come forma di comunicazione, per quanto criptata, tra gli strati più profondi e rimossi del mondo di dentro e il suo pilota (non troppo) consapevole. Oggi non siamo più così certi che i sogni siano questa sorta di posta elettronica che ci fa pervenire messaggi dettagliati e precisi da un inconscio così centralizzato, organizzato e, a suo modo, sapiente. Il contesto teorico, in cui quell’inconscio si poneva come snodo e pietra fondante del pensare e dell’agire psicoanalitico, è venuto meno con la falsificazione della teoria dell’apparato, che esigerebbe un cervello assai differente da quello di Homo Sapiens, la cui conoscenza è andata sempre più ampliandosi negli ultimi 70 anni dopo la sua morte. Assai più di quanto Freud potesse saperne conosciamo non solo il cervello che veglia ma anche il cervello che dorme continuando, durante il sonno, la sua indefessa attività di poco inferiore a quella dello stato di veglia. Altrettanto, sotto molti aspetti, non può dirsi, però, del cervello che sogna o, per meglio dire, la pur perspicua conoscenza dei meccanismi del cervello che sogna non sembra risolvere in modo decisivo il problema del ruolo e della funzione del sogno, ma soprattutto non sembra poter stabilire una volta per tutte se al sogno debba e possa essere attribuito un significato.

E’ ormai chiaro che è da ritenere superata l’idea, per tanto tempo considerata certezza, che connetteva strettamente e univocamente l’attività onirica al sonno REM. Sogno e attività mentale simil-onirica, in realtà, avvengono in tutti gli stadi del sonno compreso il sonno profondo a onde lente e, a dire il vero, possono verificarsi anche nella veglia. Per quanto i dati non siano del tutto inequivocabili e definitivi, è comunque ipotesi molto condivisa e credibile che il sogno abbia una funzione di riordino delle esperienze diurne per scartare le cose di poco conto, per trasferire i dati importanti dalla memoria a breve a quella a lungo termine e per integrare le nuove esperienze, percezioni e acquisizioni con quelle strutturate nel passato. E’ congettura, inoltre, abbastanza condivisa che l’attività onirica abbia la funzione di ampliare le connessioni sinaptiche e di eliminare i metaboliti accumulati nella veglia, che sarebbero dannosi per il funzionamento del cervello.

Al di là di queste funzioni più generali del sogno e del sognare resta però indeciso il problema del significato e, in concreto, il problema di sapere se il sogno che Giuseppe ha appena raccontato abbia un significato preciso e identificabile come sostenuto da Freud e in maniera differente anche da Jung e da generazioni di analisti freudiani e non.

Aspettarsi che siano le neuroscienze a dare una risposta a questa domanda, forse però, è come pretendere che il tabaccaio ti venda con le sigarette anche il pane e il prosciutto! Le neuroscienze hanno a che vedere con i meccanismi e i processi, ma non con i significati idiosincratici e i contenuti, che tuttavia spesso hanno un effetto di ritorno anche sui processi. Quel prosciutto, che il tabaccaio non ha da vendere, peraltro, è stato ed è tuttora oggetto di traffici ideologico-fideistici molto confusivi dai tempi di Giuseppe il patriarca e delle sue sette vacche magre e grasse o da quelli di Artemidoro sino alla smorfia napoletana e alla vecchietta del piano si sotto che si aspetta di avere in sogno dal marito, morto da 20 anni, indicazioni su alcune questioni per lei incerte e problematiche.

Il problema del significato del sogno, almeno allo stato degli strumenti disponibili, non è problema osservazionale, ma teorico e da affrontare, quindi, con la formulazione di ipotesi e congetture che, poggiando sul già conosciuto, consentano di gettare uno sguardo nella pancia del non conosciuto. Per metterci sulla via di poter rispondere perciò alla domanda se il sogno, che Giuseppe - il nostro, non il patriarca, - ha appena raccontato, abbia o no un significato, potremo tentare di entrare furtivamente, magari in modo semiserio, nello stanzino oscuro che fabbrica il suo sogno per vedere in che modo l’artigiano addetto ai sogni di Giuseppe lo costruisca, utilizzando quali abilità, quali procedure e quali strumenti. Prima ancora di entrare, però, ci può cogliere un dubbio: la semplice domanda se il sogno di Giuseppe abbia un significato non è forse troppo generica e imprecisa? Nel sogno di Giuseppe si dovrebbe, infatti, più logicamente, distinguere tra:

  • 1° il sogno come fatto;
  • 2° il sogno narrato da Giuseppe,
  • 3° il sogno riferito successivamente da Giuseppe ad altro soggetto, magari a un terapista.

E’ ragionevole pensare che il problema del significato si ponga in maniera differente nelle tre differenti occorrenze.

A Freud, che non si preoccupava di queste distinzioni e aveva un’accezione datata di “significato”, sembrava ovvio assumere che il sogno abbia un preciso significato nel suo avvenire come fatto perché è nel processo del lavoro del sogno e a partire dal desiderio rimosso (l’“imprenditore”!) che si costruiscono sogno e significato. Oggi tale assunto potrebbe però essere considerato né certo, né necessario né, al momento, decidibile con la strumentazione disponibile. Il sogno come evento che avviene nel momento x è un prodotto del cervello che dorme e non è del tutto irragionevole pensare che in quanto tale non abbia alcun significato e sia in sé soltanto una congerie confusa e frammentata di immagini, una sorta di vorticoso caleidoscopio onirico attivato da stimoli autoprodotti dal cervello nel riconsiderare i residui diurni e che, dunque, sia in definitiva un prodotto di scarto, un residuo di lavorazione di un lavoro fai da te, di cui poi, a terra, sotto il tavolo resta questo residuo come i trucioli del falegname o gli schizzi di prova di un artista.

Lasciando, però, in sospeso la domanda rispetto al sogno come fatto e venendo invece al sogno come narrazione, non si dovrebbe invece persino pensare che il sogno narrato non sia un affatto un prodotto del cervello che dorme, ma piuttosto un prodotto del cervello che si risveglia e che, ritrovandosi innanzi la congerie confusa di immagini del sogno come fatto, si trova indotto a ordinarne gli elementi in una storia a causa della difficoltà tutta umana ad accettare il disordine disparato e la profonda e insita tendenza di Homo a intessere storie? Costruendo la storia, potrebbe anche usare la sua abituale ricetta per costruire significati al modo di un cuoco buffo che si lasciasse guidare dalla ricetta, ma utilizzando gli ingredienti un po’ alla rinfusa a seconda della disponibilità, della vicinanza o del colore o di qualunque altra convenienza. Nella narrazione del sogno a un terzo, infine, è del tutto logico ipotizzare ulteriori significati o un surplus di significato come conseguenza del fatto stesso di narrarlo ad un altro con conseguenti modificazioni “difensive” della narrazione o con significati supplementari connessi all’immagine di sé e a domande aspettative e scopi impliciti nella relazione.

Se si imposta in questo modo la questione, forse il problema del significato del sogno si porrebbe in un modo, se non più semplice, certo differente. Se il sogno narrato è un prodotto del cervello che si risveglia e se il cervello che costruisce la narrazione del sogno è il medesimo cervello che tesse tutte le altre sue storie, perché nel costruire un sogno dovrebbe utilizzare procedure di costruzione del senso differenti da quelle che utilizza normalmente nell’adempiere tutte le sue incombenze? In questa ottica il problema del significato del sogno si restringerebbe alla necessità di spiegare le bizzarrie espressive del linguaggio onirico nel contesto dei più ampi e generali processi di significazione e narrazione.

Freud spiegava l’oscurità, l’irragionevolezza e le bizzarrie del linguaggio onirico con il lavoro del sogno sinteticamente così descritto nel cap. VI della Interpretazione dei sogni:

“Viene ora fatto di pensare che nel lavoro onirico si manifesti una forza psichica che da un lato spoglia della loro intensità gli elementi dotati di alto valore psichico e dall’altro crea, dagli elementi di minor valore, mediante la sovradeterminazione, nuovi valori che giungono poi nel contenuto del sogno. Se le cose stanno in questo modo, nella formazione del sogno hanno luogo una traslazione e uno spostamento delle intensità psichiche dei singoli elementi, donde deriva la differenza di testo esistente tra contenuto e pensieri del sogno. Il processo che qui supponiamo è addirittura la parte essenziale del lavoro onirico: esso merita il nome di spostamento onirico. Spostamento e condensazione sono i due artefici alla cui attività possiamo principalmente attribuire la configurazione del sogno”.

Spostamento e condensazione nell’intenzione freudiana sono condensazione e spostamento di cariche d’investimento da una rappresentazione a un’altra, che hanno come risultato la traslazione su una rappresentazione di un’intensità e di una quantità, che la sovra-determina e la fa diventare sovraintensa. Questo meccanismo, denominato falso nesso, fu esplorato da Freud già negli anni 94-95 in riferimento a problemi relativi ai processi di produzione sintomatica, che diventeranno poi carne e sangue del concetto di transfert.

Se trascurando le spiegazioni quantitative ed energetiche, ci atteniamo alla semplice descrizione delle caratteristiche del linguaggio onirico, condensazione e spostamento descrivono un tipo di falso nesso che nella vita di tutti i giorni siamo soliti chiamare metafora. Oltre 40 anni fa U. Eco sottolineava che i meccanismi della metafora e segnatamente della metafora per analogia, sono strettamente apparentati ai meccanismi freudiani del sogno: (nella metafora) “due immagini si sovrappongono, due cose diventano diverse da sé stesse, ne nasce un ircocervo visivo (oltre che concettuale). Non si direbbe che ci si trova di fronte a una sorta di immagine onirica? E infatti l’effetto della proporzione instauratasi è assai simile a quello che Freud chiamava “condensazione”: dove possono cadere i tratti che non coincidono, mentre si rafforzano quelli comuni. ... il risultato finale della proporzione aristotelica è proprio un processo affine alla condensazione freudiana, e (...) questa condensazione (...) può essere descritta nel suo meccanismo semiotico in termini di acquisto e perdita di proprietà o semi che dir si voglia”. Già R. Jacobson aveva ricollegato i meccanismi descritti da Freud con la metonimia e la metafora e Lacan aveva sviluppato tale indicazione, assimilando lo spostamento alla metonimia e la condensazione alla metafora.

Pensare che il lavoro della metafora possa sostituirsi alla condensazione e spostamento nel lavoro del sogno potrebbe sembrare una trovata furba e riduttiva, ma, benché nell’ottica freudiana la metafora non abbia alcuna valenza causativa, nondimeno essa, anche nel discorso freudiano, si radica profondamente nel tessuto analitico, situandosi come punto di snodo tra il livello astratto del modello, le articolazioni psicologiche della clinica e le procedure della tecnica. In questo quadro, essa si offriva, infatti, come punto di scambio, in cui potevano convergere la concezione stessa del sintomo, del significato, dell’interpretazione, del metodo, ponendosi come logica e naturale punta di diamante dell’interpretazione. Ma c’è di più perché la distinzione tra rappresentazione della parola e rappresentazione della cosa consentiva di affermare che il sistema inconscio, che “... contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose” (Freud, 1915), è il non detto e non dicibile, ciò cui è rifiutata la traduzione in parole. Così inteso, l’inconscio freudiano si porrebbe come naturale punto d’insorgenza d’ogni possibile metafora nel sogno, nella nevrosi, nel discorso e nella vita quotidiana. La metafora, infatti, si colloca necessariamente come interfaccia tra il non dicibile e il codice linguistico, mettendo in gioco elementi che sembrano travalicare l’ambito linguistico.

Eco, concludendo il discorso sulle caratteristiche generali dell’espressione metaforica, afferma che: “... la metafora suona a scandalo di ogni linguistica, perché è di fatto meccanismo semiotico che appare in quasi tutti i sistemi di segni, ma in modo tale da rinviare la spiegazione linguistica a meccanismi semiotici che non sono propri della lingua parlata. (...). In altri termini non si tratta di dire che esistono anche metafore visive (...) o che esistono anche - forse - olfattive o musicali. Il problema è che la metafora richiede spesso per essere in qualche modo spiegata nelle sue origini, il rinvio a esperienze visive, auditive, tattili, olfattive. Insomma la metafora è violazione della lingua eppure dice qualcosa in un modo che la lingua non sa spiegare in virtù di un rimando a domini non linguistici (…).

Questa caratteristica della metafora di rimandare a domini non linguistici incrocia  l’altra sua proprietà essenziale e cioè con quella di costruire un falso nesso, trasferendo significato da un elemento a un altro. Siamo abituati a leggere questo trasferimento di vissuto nei contesti solitamente indicati come transferali, ma non è stato forse sufficientemente sottolineato dalla letteratura che il verbo utilizzato da Freud per indicare l’azione del traslare o del trasferire è űbertragen, che traduce il latino transferre, (da cui transfert), ma che è, anche letteralmente, corrispettivo del greco metaphorein. I tre verbi denotano in modo simile il concetto di portare sopra e oltre e ben si prestano a esprimere un aspetto essenziale del lavoro del cervello come macchina conoscitiva: auto-organizzarsi in base alle risultanze delle transazioni con l’ambiente, usufruendo del passato per progettare e realizzare il futuro, funzionando da macchina previsionale per anticipare cosa accadrà “dopo”. La metafora, ma anche il semplice linguaggio, consentono di trasferire il significato alle situazioni derivate o assimilate e ad ambiti considerati corrispondenti per somiglianza, analogia o parentela funzionale. Ciò permette di allargare le acquisizioni sperimentate in un campo conosciuto a un ambito sconosciuto o analogo o traslato. In tal modo i funzionamenti “superiori” (semantici, simbolici e linguistici) non solo funzionano sempre in parallelo rispetto a quelli “inferiori” (somato-sensoriali, emozionali, iconici, procedurali...), ma contemporaneamente poggiano su di essi allo stesso modo in cui l’attico poggia sulle fondamenta e ne rispetta la forma di stabilità. In quest’ottica il trasferire lungi dal riferirsi a un fenomeno nel senso freudiano del termine è la legge essenziale di funzionamento del cervello e della mente sia “dall’alto in basso” che “dal basso in alto”.

Oltre al magico e fantasioso carrello trasportatore della metafora, il laboratorio che fabbrica il sogno di Giuseppe dovrà disporre di altre strumentazioni e, in particolare, di un’ampia scaffalatura che ospiti i banchi di memoria, di una basica attitudine narrativa e di un aggeggio che consenta la traduzione delle immagini in parole e delle parole in immagini.

Il sogno narrato nel presente assembla liberamente nella scena brandelli di passato. Dunque il laboratorio di Giuseppe dovrà disporre di tutti i tipi di memoria che conosciamo: della memoria a breve che, come fornitrice di resti diurni era già il primo fornitore del sogno freudiano, di quella a lungo temine perché il sogno tesse le sue storie senza rispetto del calendario e della cronologia, ma anche della memoria semantica ed episodica e soprattutto anche del gran calderone oscuro della memoria implicita. Quando siamo intenti a rievocare qualcosa a livello semantico o episodico (e accade di norma nel sogno) sappiamo che stiamo ricordando qualcosa; ciò che non accade, invece, nel caso della memoria implicita. Con la memoria semantica siamo in grado di rievocare dati e informazioni, persino sequenze intricate di collegamenti logici, mentre con quella episodica siamo soliti abitare un ricordo come in un effettivo viaggio nel tempo con la rievocazione di situazioni e vissuti soggettivi emozionalmente marcati e di rivissuti scenici e sensoriali e forse somato-sensoriali. Inoltre nell’ambito di questo tipo di esperienza il nostro vissuto può essere evocato da osservatore (come se io assistessi alla riproposizione della scena guardandola dall’esterno) oppure da partecipante, (cioè dall’interno e in genere con una più intensa partecipazione emotiva). Tutte evenienze mnestiche che siamo abituati a riscontrare nei sogni narrati, in cui però ha particolare rilevanza la più sotterranea e meno facilmente identificabile attivazione della memoria implicita.

La riattivazione dei ricordi impliciti è spesso influenzata da fattori dell’ambiente interno o esterno. Quando è presente un isomorfismo tra la situazione attuale e quella ricordata si parla di ecforia che dipende dalle caratteristiche dello stimolo scatenante e dalle modalità con cui tale rappresentazione è stata registrata nella memoria. A questo effetto è legato il fatto che il richiamo di ricordi espliciti è facilitato quando le condizioni in cui ci troviamo sono simili (dal punto di vista interno o esterno) a quelle che erano presenti al momento della registrazione del ricordo. La memoria esplicita è cioè contesto-dipendente. Talvolta però possiamo avere un ricordo di un avvenimento senza tuttavia avvertire alcuno stimolo scatenante. In alcuni casi una breve analisi rende possibile trovare in qualche analogia o isomorfismo tale configurazione scatenante. È anche possibile avere tuttavia una netta sensazione ecforica e di stare dunque viaggiando mentalmente nel nostro passato anche se in realtà quell’avvenimento non si è mai verificato. Una esperienza ecforica è più o meno ricca in relazione alla complessità degli stimoli che l’hanno stimolata e che possono dare origine a una cascata associativa, ma anche l’ecforia iniziale può essere seguita da una ulteriore cascata di legami associativi determinati sia dal contenuto del ricordo che dalla situazione attuale. Ciò che, in generale, porta a un rimodellamento costante dei ricordi.

Gli stimoli (esterni, ma anche semplicemente interni…al cervello) possono riattivare sia la memoria semantica ed episodica che quella implicita. Gli elementi impliciti non sono associati a un ricordo, ma sono appunto sensazioni, emozioni, schemi di comportamento, oppure un’onda di sensazioni e immagini interne che solo in secondo momento possono essere associate a ricordi espliciti. Il fatto è che noi sentiamo percepiamo e filtriamo gli elementi della nostra memoria esplicita attraverso i modelli mentali della nostra memoria implicita. Talvolta, ma non sempre, è possibile scoprire (o credere di scoprire) i misteriosi agganci tra questo fiume emozionale, somato-sensitivo e previsionale con il contenuto del ricordo esplicito.

C’è un ulteriore strumento da considerare nell’armamentario della fabbrichetta di Giuseppe e cioè l’attitudine narrativa. Già Freud aveva attribuito un ruolo importante nella costruzione del sogno alla struttura narrativa che era parte essenziale della elaborazione secondaria nel lavoro del sogno. Da allora però l’attitudine narrativa dell’Io ha assunto un peso assai più rilevante. Sempre più nelle teorie della soggettività l’Io è visto infatti come un io narrante, a un tempo autore e risultato delle sue narrazioni. Anticipata da Vygotskij negli anni venti, questa concezione è stata sviluppata dal semiologo Bacthin. Vygotskij osservava che quando un bambino costruisce o co-costruisce con i genitori racconti, interiorizzando le sue esperienze con i genitori si crea pensiero e ci sono molti segnali per intendere anche le forme di riflessione su noi stessi come derivate da forme narrative di comunicazione intersoggettiva. Secondo D. Dennett il “raccontare storie” è la fondamentale tattica di auto-protezione, auto-controllo e autodefinizione propria di homo sapiens. Tale sostanza narrativa dell’Io, che tesse i suoi racconti dai quali è contemporaneamente tessuto, ha una potente articolazione biologica e può essere paragonata al tessere tele dei ragni o al costruire dighe dei castori. Tale attitudine narrativa implica regole e modelli culturali comuni, ma anche canovacci e schemi narrativi che organizzano in sequenze la molteplicità dell’esperienza. Ciò sembra potersi affermare non solo dei racconti in cui si articola la memoria esplicita, ma anche per le strutture organizzate della memoria implicita. Stern ha introdotto la nozione di involucro proto-narrativo per intendere un canovaccio pre-verbale che regola una sequenza tensio-emozionale mentre Damasio si riferisce alle proto-strutture neurali del senso corporeo di sé come a delle sequenze scenico-narrative. In questa ottica il fatto che un sogno si presenta essenzialmente come un racconto può avere un significato più profondo rispetto a quanto inteso dalla elaborazione secondaria freudiana. Infatti lo schema narrativo (e dunque l’organizzazione di elementi secondo un flusso temporale e spaziale) sembra il format base di organizzazione della nostra esperienza sia nel nostro raccontarci ciò di cui diventiamo consapevoli (per esempio il sogno che abbiamo appena fatto) sia delle sequenze della nostra memoria episodica, sia delle sequenze proto-narrative della nostra memoria implicita. Non ci sarebbe dunque da stupirsi se anche gli gnomi e le cooperative di gnomi che operano nel laboratorio dell’artigiano del sogno svolgono anch’essi un lavoro essenzialmente narrativo e riutilizzano nel loro tessere nuove storie con gli elementi da processare e integrare, vecchie e vecchissime storie nel loro pandemonio parallelo. Questa congettura potrebbe restituire significato anche alla congerie d’immagini del sogno come fatto.

Detto della memoria e dell’attitudine narrativa, resta da dire dell’aggeggio che traduce le parole in immagini e le immagini in parole. Il sogno narrato è fatto di parole, ma non c’è di norma nel sogno un narratore o un speaker degli gnomi mentali che racconta in parole una storia alle altre cooperative di gnomi. Anche un film o un fumetto è una narrazione. Certo i film e i fumetti attuali sono un compromesso tra immagini e parole, una volta però i film erano narrazioni tessute di pure immagini seppure di immagini in azione (si pensi alla Corazzata Potemkin o alle comiche di Charlot). Come si può passare dalle immagini alle parole e viceversa? Italo Calvino, trattando dell’immaginazione e della fantasia, descrive due processi: il primo parte dalla parola e arriva all’immagine visiva, mentre il secondo parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Egli scrive nelle “Lezioni americane”: “Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata vista mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film. Il film è dunque il risultato di una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma, in questo processo il cinema mentale dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate dalla camera e poi montate in moviola. Questo cinema mentale è sempre in funzione in tutti noi - e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema - e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore”.

Ci sarebbe dunque una funzione in grado di commutare emozioni e sensazioni in immagini. Secondo gli esperimenti di Kosslyn ci sarebbero effettivamente due processi in parallelo operanti una continua traduzione delle immagini in parole e delle parole in immagini.


Avendo, dunque, considerato l’attrezzatura di cui il laboratorio deve essere dotato e che deve poter utilizzare per costruire un sogno, possiamo introdurci di soppiatto nella fabbrica del sogno di Giuseppe. Partiamo dall’assunto che il sogno narrato potrebbe forse costituire un esempio particolare della procedura attraverso cui si assemblano e costruiscono i significati e concretamente che siano un modo fantasioso di utilizzare la ricetta consueta per costruire significati magari al modo di un cuoco buffo che seguisse una ricetta, ma utilizzando gli ingredienti un po’ alla rinfusa a seconda della disponibilità, vicinanza, somiglianza o di qualunque altra convenienza. A quanto pare, soprattutto nella fase REM, il cervello si affatica a rielaborare e riordinare i vissuti del giorno come un artigiano che dopo una giornata di lavoro si dia da fare per mettere a posto i prodotti finiti, ordinare gli arnesi e gli oggetti in lavorazione, ripulire il banco di lavoro e gettare gli avanzi. Cerchiamo dunque di figurarci il lavoro dell’artigiano di Giuseppe, che riordina il suo laboratorio e il prodotto del suo lavoro.

Già Freud sapeva bene che il lavoro del sogno parte dai residui diurni e ognuno di noi sa che in sogno normalmente sono riconoscibili gli accenni agli eventi e problemi, i progetti, le preoccupazioni e le ansie che ci hanno occupato nel giorno o nei giorni precedenti o ci attendono per il giorno successivo. Talvolta però questi rimandi sono assenti o non riconoscibili come nel caso dell’ecforia e ancora come nel caso dell’ecforia a volte nel sogno viviamo (come osservatori o come partecipanti e talvolta come osservatori e come partecipanti) situazioni che poi una volta svegli riconosciamo di aver effettivamente vissuto (quante volte abbiamo dato l’esame di maturità nei sogni?) oppure viviamo come se l’avessimo effettivamente vissuta una situazione che in realtà non abbiamo mai vissuto (ricordo un mio bellissimo sogno in cui mi godevo in volo le foci del Tago, su cui naturalmente non ho mai…volato!) Dagli studi di Damasio sappiamo anche che la presenza di un oggetto nella corteccia è di per sé in grado di muovere il lavoro della corteccia prefrontale e le sue connessioni con l’amigdala e il corpo cingolato, a prescindere che l’oggetto sia presente come percetto, come idea o come rappresentazione iconica. Sappiamo anche che un isomorfismo, una somiglianza o una analogia favoriscono la rievocazione di ricordi caratterizzati da tali isomorfismi o somiglianze. Conseguentemente se un oggetto o situazione o evento è presente nella corteccia tenderà a riattivare ricordi che abbiano somiglianza o analogia secondo un effetto ecforico.

Giuseppe, dunque, magari nel momento in cui si attiva una fase REM, apre la porta del laboratorio, accende la luce ed è sommerso da una miriade di “oggetti”: resti di pensieri, spezzoni di immagini, racconti di eventi, progetti, desideri, sentimenti ed emozioni collegate a questo o a quello, tutti elementi che nella vita reale erano connessi e più o meno collegati o scollegati secondo la logica delle cose (causale, temporale, spaziale...) della nostra ordinata vita diurna. L’artigiano deve però sistemare tutto questo guazzabuglio secondo la logica del laboratorio, nel senso del suo essere macchina che prevede e costruisce il futuro e del suo essere macchina auto-organizzata in ragione del suo consueto funzionamento. Tutti questi elementi devono essere organizzati cioè secondo il senso del mondo di dentro. Presumibilmente ogni porzione o agenzia del cervello fa il suo lavoro, per conto suo. In verità il nostro artigiano non lavora lui pezzo per pezzo. Nel suo laboratorio infatti ci sono migliaia di gnomi che in gruppi di lavoro e secondo posizionamenti preformati portano avanti questo o quell’altro pezzo del progetto, ognuno per suo conto impegnati con strutture di racconto da tessere con elementi nuovi e antichi. Nel giorno precedente al sogno, Giuseppe, che insegna filosofia, preparava una lezione sulla metafora e sintetizzava per i suoi studenti gli asserti di Aristotele. Infatti, una parte della corteccia ripropone qualcosa che un cartellino indicherebbe come “asserti di Aristotele sulla metafora”, mentre un’altra parte processa invece un oggetto “albero di Porfirio”, un altro l’  albero della vita”, un altro ancora l’“albero caduto che ho visto”. Nella giornata precedente questi collegamenti erano abbastanza coerenti salvo l’albero caduto che chissà perché ci sta e che muove un gruppetto di gnomi che, lavorando su “albero caduto”, incoccia quello di un altro gruppo che, processando “la mela che ho mangiato stamattina”, ha trovato in uno scaffale, da cui uno gnomo l’ha tolta fuori, una mela che aveva quel sapore e che era il frutto di un albero, che cadde per colpa di un trattorista distratto. Quella volta Bartolo, che era il gatto dell’artigiano, perse la sua postazione estiva preferita e l’artigiano la sua “fabbrica di mele”. Nel frattempo gli gnomi del prefrontale e quelli dell’amigdala trovano, invece, che la mela oltre a deliziosi rimandi palato-labiali muove onde emozionali di altro genere. L’artigiano, infatti, un giorno offrì una di quelle mele a Teresa e l’immagine riproposta muove una corporazione di gnomi specializzata a valutare sensazioni ed emozioni di genere assai piacevole che si illuminano come si illuminavano gli occhi dell’artigiano ogni volta che vedeva o pensava a Teresa. Su Teresa si danno però da fare altri seriosi gnomi del prefrontale e dell’amigdala, che evidenziano ondate di umori minacciosi finché una spia rossa si accende imperiosamente: Attenzione! Attenzione!”. Gli gnomi gettano via la “mela di Teresa”, ma non hanno potuto impedire il diffondersi di un fiotto d’aria malmostosa, acre e greve in tutto il laboratorio, investendo persino la “mela che ho mangiato stamattina” e Bartolo e l’albero delle mele. Uno gnomo solitario e pedante ha rinvenuto una antica mela, che nutre un verme grasso e rosa. Così alcuni gnomi del settore creativo trovano che ci vorrebbe “zia Teresa” con la sua scopa, per spazzare via queste ondate maleodoranti e verminose. Ma zia Teresa usava la scopa anche con il gatto come quando lo inseguiva menando di scopa per tutto il cortile...! Suona la sveglia! Giuseppe si sveglia e uscendo dal torpore, ricorda di aver sognato, stranamente e chissà perché, “il suo antico gatto Bartolo, che inseguito dalla zia Teresa, schizza sul melo, che improvvisamente si affloscia a terra fragorosamente spargendo intorno tutte le mele, che appaiono, come in primo piano, fradice e infestate di vermi”. Giuseppe non ci fece caso eppure per qualche tempo non ebbe voglia di mele!

Presentato al Laboratorio Verona 2.0 il 18 settembre 2021.

 

Che in una stanza di analisi, accanto alla comunicazione esplicita e diretta tra i due attori, vi sia anche una comunicazione inconscia è convinzione dichiarata e corrente di tutto il popolo degli analisti. Tale solida convinzione, tuttavia, non è corroborata da una chiara e accurata descrizione del misterioso "fenomeno"; non è oggetto di precisa e puntigliosa analisi concettuale e, anzi, a dire il vero, non è neppure oggetto di particolare attenzione da parte della letteratura. E' piuttosto qualcosa di dato, noto e quasi scontato, che, più che essere considerato e studiato in quanto tale, funge preferibilmente da prezioso e ovvio terreno d'appoggio, per problematiche più dibattute e sostanziose. Nel caso concreto si tratta soprattutto del binomio transfert/controtransfert, dell'identificazione proiettiva, del campo bi-personale, della fantasia inconscia e del sogno, della rêverie o magari della sintonizzazione emotiva o dei neuroni specchio.

Una breve indagine storica può già rendere conto di questa approssimata conformazione della nozione di comunicazione inconscia.

Il primo a parlarne fu proprio Freud, che già nel 1912 in Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico scriveva: " (l’analista) deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente l’inconscio del malato che trasmette; deve disporsi rispetto all’analizzato come il ricevitore del telefono rispetto al microfono trasmittente. Come il ricevitore ritrasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche nella linea telefonica …così l’inconscio del medico è capace di ristabilire a partire dai derivati che gli sono stati comunicati quello stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato (OSF, VI, p. 536-537”. Nel saggio su “L’inconscio” (1915) dirà ancora “E’ assai interessante che l’Inc di una persona possa reagire all’Inc di un’altra eludendo C. Questo fatto, pur meritando un’indagine più approfondita, specialmente nel senso di determinare se si possa escludere l’intervento di un’attività preconscia, è comunque incontestabile sotto il profilo descrittivo"(VIII, p. 78).

In realtà, questi asserti freudiani non sono così prossimi alla nozione corrente di comunicazione inconscia o comunque lo sono assai meno di quanto a prima vista non possa sembrare. Se si tiene conto del ruolo dei derivati e dell'interrogativo a riguardo del preconscio, sembra che Freud non vada poi al di là della sua basilare concezione del lavoro analitico. Certo, l'affermazione, a un tempo netta e generica, compie comunque il primo passo verso una concezione della comunicazione inconscia come "fatto" o come fenomeno "incontestabile" sotto il profilo descrittivo. A riprova di ciò, Fenichel, in un articolo di una decina di anni successivo, utilizza la nozione, corredandola di esemplificazione clinica. Freud, comunque, non da alcuna indicazione sul processo, sul come avvenga questa trasmissione, anche se afferma che il fatto meriterebbe un'indagine più approfondita soprattutto per determinare il ruolo eventuale dell'attività preconscia.

Su questa base, il secondo elemento essenziale per lo sviluppo futuro della nozione sarà apportato da Ferenczi con la sottolineatura del ruolo dell'emotività dell'analista nel processo terapeutico e, più in generale, tramite l'idea che la personalità dell'analista sia fattore e strumento di guarigione. Il che silenziosamente immette la problematica della comunicazione inconscia nell'ambito del dibattito, soprattutto futuro, del transfert e del controtransfert. Sarà una via di non ritorno.

Fu Theodor Reik a imboccare in maniera più decisa questa strada in Il terzo orecchio (1948) in cui scriveva: “L’analista sente non solo ciò che è nelle parole; egli sente anche quello che le parole non dicono. Egli ascolta con il terzo orecchio sentendo non solo ciò che il paziente dice, ma anche la propria voce interna, ciò che emerge dalle profondità del proprio inconscio…Ciò che viene detto non è la cosa più importante. A noi sembra più importante riconoscere ciò che la parola nasconde e ciò che il silenzio svela”. E ancora “…i piani dell’inconscio non sono afferrati/compresi direttamente. Il medium è l’ego, dentro cui l’inconscio dell’altra persona è introiettato. Per comprendere un altro, noi non abbiamo bisogno di esplorare la sua mente, ma di sentirlo inconsciamente nell'ego” e ancora: "Ciò che ho detto è che questi impulsi inconsci nella mente dell’uno inducono impulsi dello stesso tipo nella mente dell’altro in questo caso nell’analista!".

Fin qui si tratta essenzialmente di sviluppi che allargano il primissimo asserto freudiano: l'inconscio del P (emittente) trasmette all'inconscio del T (ricevente), ma che arriveranno presto a una conclusione non irrilevante, anche se stupefacente e cioè che da questa trasmissione l'analista può ricavare dati ed elementi per ottenere degli insight. Fu la Heinman nel suo noto saggio sul controtransfert (1950), a concludere che visto che il controtransfert è l’effetto del desiderio inconscio del paziente di trasferire sull’analista affetti che egli non può riconoscere, né sperimentare come propri, l’analista può scavare nel proprio controtransfert per avere degli insight.

In questa linea il terzo e decisivo passo, sulla base della nozione di identificazione proiettiva introdotta da M. Klein, fu compiuto da Bion, che esplicita l'idea che l'identificazione proiettiva del P influenza realmente l'analista. Considerazione che innesta automaticamente la comunicazione inconscia nell'ambito del controtransfert e che verrà categorizzato da Ogden: “l’identificazione proiettiva è intrinsecamente un concetto relativo all’interfaccia tra intra-psichico ed inter-personale, cioè il modo con cui le fantasie di una persona sono comunicate e premono per influenzare un’altra persona”.

Il passo successivo è quasi ovvio. Dato che P e T sono aggeggi della stessa marca e della stessa serie, è consequenziale aggiungere che anche l'inconscio di T è emittente e quello di P ricevente. Questo ulteriore passo, che avviene comunque sempre nell'alveo della deriva bioniana, è stato compiuto essenzialmente dai Baranger: quando (il contotransfert) acquista lo stesso valore teorico e tecnico del transfert, la situazione analitica si configura come un campo dinamico bi-personale, e i fenomeni che si verificano è necessario formularli in termini bi-personali. Così essi giungono a ridefinire la fantasia inconscia, che non può essere considerata la somma delle due situazioni interne. Essa è qualcosa creata tra due persone, all’interno dell’unità che esse formano nel momento della seduta, qualcosa di radicalmente differente da ciascuno di loro presi separatamente: "Noi definiamo la fantasia in analisi come la struttura dinamica che in ogni momento dà il significato al campo bipersonale".

Questo ulteriore sviluppo ha fortemente influito sulla psicoanalisi italiana degli ultimi due decenni. A. Ferro può così giungere a sottolineare che fin dal primo contatto telefonico e persino prima di esso, la comunicazione inconscia comincia ad organizzarsi nel paziente, nell’analista e nelle fantasie del paziente, dell’analista e della coppia. Sino alla concezione di un "inter-psichico" definito da Bolognini come un livello funzionale, pre-soggettivo dove due persone possono scambiarsi contenuti interni ed esperienze in un modo condiviso, attraverso l’uso di una “normale” identificazione proiettiva comunicativa.

Questa breve sintesi storica (che ricalca, volutamente e fedelmente, la trattazione della voce "comunicazione inconscia" del dizionario enciclopedico dell'IPA) mostra chiaramente che in definitiva la comunicazione inconscia è diventata una scorciatoia, imprevedibile e impervia, utilizzata per soccorrere l'apparato intrapsichico freudiano (la "mente isolata" di cui qualche decennio fa si parlava!), dandogli per così dire, un'apertura da sotto e dal profondo e dotandolo di una insospettata capacità di leggere suggestioni interpersonali, ottenendo così anche una qualche inter-personalizzazione (più che una vera rilettura inter-soggettiva) della psicoanalisi, restando tuttavia ben all'interno di una visione intrapsichica sia del soggetto che della pratica clinica. La seconda osservazione che si impone è che le straordinarie prestazioni della comunicazione inconscia sono semplicemente "date" e, si suppone, "provate" dai dati clinici e dall'esperienza clinica senza preoccupazione alcuna a riguardo dei processi attraverso cui tutto ciò possa avvenire e senza alcun riferimento a una teoria generale, che possa consentire un minimo di controllo, corroborazione e verifica come ci si spetterebbe da un ambito di ricerca che si vuole scientifico.

Tutto ciò a dispetto del povero Eagle, che trattando esplicitamente della identificazione proiettiva, con scarsa attenzione alla diplomazia, si limita a dire: "Parlare di una persona che mette qualcosa (ad esempio, pensieri e sentimenti) dentro a un'altra, potrebbe essere considerato delirante".

Esiste davvero un "fenomeno" che possa essere indicato con il cartellino "comunicazione inconscia"? Che cosa e in che modo si potrà mai "comunicare inconsciamente"? A partire da quale teoria? Attraverso quali processi?

Affermare che un T e un P in una stanza di consultazione, (ma anche due persone nello scompartimento di un treno, in un salotto, in una camera da letto, davanti a una birra...), comunicano, oltre che in modo esplicito e riflesso, anche inconsciamente, non è, in realtà, scoperta sconvolgente che evidenzi un fenomeno delimitabile come particolare, nuovo, profondo, misterioso e oscuro. Sotto molti aspetti è più che altro una scoperta dell'acqua calda. Anche la semplice pragmatica della comunicazione mostra un livello occulto della comunicazione che può e, in genere, è inconsapevole tanto nell'emittente che nel ricevente. Anche nel più semplice: "passami il sale!" c'è una ... comunicazione inconscia!

Questa considerazione può sembrare una banalizzazione. Non lo è. E' invece un campanello d'allarme che può indurre a interrogarsi sulla differenza, che potrebbe essere rilevante, tra l'assumere la comunicazione inconscia tra due soggetti come fenomeno, come "cosa", come evento mirabile e misterioso raccontato avvenire nell'hic et nunc e studiarla invece come processo in cui sono in gioco "n elevato n" variabili. Se si affronta, infatti, il problema tradizionale della comunicazione inconscia a partire dal presupposto che ogni comunicazione tra soggetti avviene all'interno di un'interazione complessa, tra due totalità complesse, in cui

  1. ciò che può essere definito "cosciente" è solo la punta emergente di una massa stratificata di processi del tutto inconsapevoli,
  2. in cui tanto l'emittente quanto il ricevente sono una "lingua" e un "orecchio" formattati, oltre che dalla natura prima e dalla natura seconda, dalla storia e dai vincoli non semplicemente "culturali", ma idiosincraticamente determinati dalla singola e irripetibile storia di ogni singolo soggetto,
  3. e in cui l'Io cosciente non è il boss che dirige l'intenzionalità della totalità, ma è in gran parte diretto dalla processuale intenzionalità della totalità,

allora dire che tra due soggetti c'è un ampio spazio grigio di comunicazione inconscia è la scoperta dell'acqua calda, salvo precisare però che in questa acqua calda il termine "inconscio" è un semplice aggettivo che significa soltanto "non consapevolmente comunicato".

A creare il problema (e anche una nebulosa confusione) nell'ambito della comunicazione inconscia non è la "cosa", il fatto che in qualunque interazione la comunicazione esplicita poggia ed emerge in una nuvola di comunicazione inconsapevole, quanto piuttosto la delimitazione di questo fatto come un "fenomeno" specifico, all'interno di un contesto particolare (la situazione analitica) e di un punto di vista che lo inquadra e giustifica nel quadro di una teoria che descrive e spiega in termini totalizzanti il comportamento dei due soggetti coinvolti in quella concreta interazione. In concreto, ciò che trasforma la "cosa" ovvia in problema nebbioso e confuso è l'uso del termine "inconscio" e il significato che gli viene attribuito. Se "inconscio" non è un semplice aggettivo, che designa la qualità consapevole o inconsapevole di un qualunque dato o percezione di un dato, ma è un rimando (esplicito o allusivo) a una qualche entità preformata e strutturata che influenza, dirige, manipola il dato in uscita o in entrata, nasce il problema. Il rimando a un tale inconscio (che Freud stesso si impedì di usare come sostantivo (1915) senza peraltro riuscire a obbedirsi!) trasforma una modalità generale della interazione umana in un "fenomeno" particolare, che avviene, con caratteristiche specifiche sue proprie, nella situazione analitica concreta.

In questo modo si crea non solo un problema, ma un groviglio e un equivoco che fanno della comunicazione inconscia un oggetto confuso di cui è persino difficile parlare. Il rimando a un "inconscio sostantivo" è infatti semplicemente dato, supposto, non giustificato sul piano teorico-critico e storico-critico. Per questo è difficile immaginare una discussione produttiva sulla comunicazione inconscia con un neo-bioniano o con un tifoso dell'identificazione proiettiva perché, benché paradossalmente si possa essere del tutto d'accordo sulla "cosa", e cioè sul fatto che la comunicazione esplicita poggia ed emerge in una nuvola di comunicazione inconsapevole, ci si troverebbe a parlare l'uno l'arabo e l'altro l'italiano, a causa della lettura della "cosa" nel quadro di due differenti lingue teoriche.

Per chi volesse limitarsi a parlare correttamente italiano si può con un minimo di analisi logica, cercare di fare chiarezza in questa babele linguistico-teorica, distinguendo i vari livelli in cui la comunicazione inconscia può collocarsi sul piano teorico.

  • Anzittutto c'è la "cosa" ed è semplice da esprimere: la comunicazione esplicita, riflessa e consapevole sembra sottendere e magari anche emergere in e da una nuvola di comunicazione inconsapevole.
  • La "cosa" così genericamente delimitata non è un fenomeno direttamente osservabile, di cui si possa descrivere profilo, struttura, caratteristiche e comportamento con la semplice osservazione, come si può fare con un coniglio o una lumaca. Se, dunque, si desidera conoscere una tale "cosa" non accessibile all'osservazione diretta è inevitabile e necessario spendere un lavoro teorico, formulando ipotesi e congetture da confermare o disconfermare a partire da una quadro o modello teorico. E' il genere di lavoro necessario in tutti quei casi in cui si vuole conoscere qualcosa di non immediatamente accessibile all'osservazione.
  • Si tratterà di avanzare, dunque, ipotesi e congetture sulla natura e funzionamento della "cosa": si manifesta soltanto nella situazione analitica o in tutte le interazioni umane? Come può essere descritto e definito a partire da un modello teorico, (già esistente, da costruire o da ri-costruire), del soggetto, dell'interazione e della comunicazione? Che rapporto questa comunicazione inconscia intrattiene con la comunicazione consapevole? E questa è una piantina che germoglia in modo autonomo e indipendente in prossimità del grande baobab della comunicazione inconsapevole o ha rapporti molto più complicati perché il baobab e la piantina gracile hanno le stesse radici e sono variamente interconnesse? Insomma il problema teorico è quello più generale del ruolo e funzionamento generale della comunicazione inconsapevole nelle interazioni umane, all'interno di una teoria generale intersoggettiva dell'interazione.
  • Naturalmente, ma in modo logicamente successivo e subalterno, si porrà anche il problema più specifico del ruolo e funzione della comunicazione inconscia in quella particolare sottoclasse delle interazioni umane che chiamiamo "interazioni terapeutiche" o "analitiche".

Questa impostazione del livello di teoria relativo alla comunicazione inconscia è logicamente prioritario rispetto al livello di teoria che si può intuire dalla breve introduzione storica che ho abbozzato e che sembra emergere dal dibattito teorico-clinico corrente. Prioritario e logicamente differente. Cerchiamo allora di decrittare la lingua del nostro virtuale antagonista per esplicitarne il terreno teorico in cui coltiva la sua comunicazione inconscia.

  • A prescindere dal fatto che egli ritenga o no che la comunicazione inconsapevole sia una caratteristica generalizzata di tutte le interazioni umane, egli si preoccupa solo della comunicazione inconscia nella situazione analitica tra un analista e un analizzando, considerandolo, che lo dica o no, un "fenomeno" che si verifica tra le quattro pareti dello studio.
  • Considera il "fenomeno", lo studia, lo descrive e se ne serve all'interno di quel contesto teorico, che chiama "teoria psicoanalitica", in cui il termine "inconscio" non è un semplice sinonimo di "inconsapevole", ma rimanda, in modo dichiarato o meno, a forze, intenzioni, desideri, fantasie che costituiscono un inconscio (sostantivo) la cui natura attività e funzione fu descritta ormai più di un secolo fa da S. Freud e sulla cui validità occorrerebbe pronunciarsi criticamente, visto che sono in molti a pensare che quel modello esige un cervello differente da quello di Homo sapiens. Cosa che in genere viene del tutto evitata.
  • Che il nostro contendente consideri ancora valida la teoria dell'apparato (metapsicologia) o la ritenga, magari silenziosamente e in modo non dichiarato, desueta sembra essere del tutto irrilevante perché in ogni caso, l'inconscio cui fa riferimento funziona secondo le modalità che erano state codificate da quell'apparato e sono garantite da prove e dati ricavati dall'esercizio del metodo costruito proprio a partire dalla struttura e funzionamento di quell'apparato.
  • L'apparato era una teoria processuale che intendeva descrivere e spiegare i comportamenti e (dunque anche la comunicazione) in termini di processi, ma ormai da almeno 30 anni nessuno se ne serve esplicitamente per questo genere di spiegazione e validazione congetturale. Di conseguenza il cultore della comunicazione inconscia in senso stretto (comunicazione diretta da inconscio a inconscio) si limita a osservare e utilizzare le funzioni e azioni della comunicazione inconscia senza preoccuparsi di spiegare il "come" e il "perché".

Si capisce quindi che le due lingue sono diverse e che è difficile discutere se uno parla italiano e l'altro arabo o cinese. Si comincia però anche a capire perché il tema sia scivoloso, sfuggente e impalpabile.

Un ascoltatore scettico, sentendo e considerando gli asserti dei cultori della comunicazione inconscia potrebbe trovarli troppo oscuri (come avviene questa comunicazione? Non è una specie di impensabile e misterioso contagio psichico?), magici (come si può immettere inconsciamente in un altro un contenuto, un'emozione, un desiderio?) o persino mistici (cosa sarà mai una fantasia inconscia creata tra due persone, all’interno dell’unità che esse formano nel momento della seduta?), ma le sue istanze critiche e scettiche non serviranno a creare dubbi o interrogativi nel nostro virtuale antagonista. Egli infatti troverà questo alone misterioso della comunicazione inconscia come l'ovvio e logico risultato della sua incommensurabile profondità e verità che, naturalmente, risulterà profondamente e immediatamente vera per chiunque l' abbia personalmente sperimentata come analista e come analizzando.

Freud, che per quanto determinista e meccanicista (e lo ripete energicamente proprio nel saggio Telepatia e psicoanalisi) era abbastanza curioso dei fenomeni occulti. Mentre era del tutto scettico nei confronti della divinazione e previsione del futuro, lo è leggermente meno a riguardo della telepatia e della trasmissione a distanza del pensiero, non ha invece dubbi sulla comunicazione da inconscio a inconscio. In ogni caso il suo interesse per questi argomenti è strettamente legato a un atteggiamento scientifico che non vieta la ricerca anche in questi campi, ma che non transige alla necessità di accettarne i risultati siano essi coerenti o no con i desideri del ricercatore.   Qualche anno fa però mi è capitato di leggere uno stupefacente articolo sulla Rivista di Psicoanalisi in cui un analista trattava tranquillamente di telepatia e di preveggenza del futuro con dovizia di dati clinici!

Ho già notato che Freud parlando per primo di comunicazione inconscia, in realtà, non esce dal suo quadro. Quando invece, seguendo la deriva Ferenczi, Reich, Klein, Bion, Ogden e successivi, questa tematica si innesta sul quella del controtransfert, deborda dal quadro teorico clinico e tecnico freudiano, perché sulla base della comunicazione inconscia, il controtransfert diventa fonte di dati utilizzabili per ottenere degli insight. Ciò è stato poi categorizzato da Ogden in modo del tutto esplicito come elemento chiave della sua identificazione proiettiva. Questa nozione, indubbiamente ma poco comprensibilmente fortunata, ha un ruolo chiave in questo discorso, perché ha sdoganato l'idea di un passaggio diretto di contenuti da mente a mente, diventando così la matrice generalizzata delle concezioni correnti sulla comunicazione inconscia. Ma è davvero possibile e pensabile un passaggio diretto di dati e contenuti dall'inconscio del P al T?

Qui è la vera pietra d'inciampo! Se si prende la comunicazione inconscia nel senso forte in cui la utilizzano Ogden e quanti si servono del concetto di identificazione proiettiva si chiamano in causa i tre punti qualificanti del dibattito contemporaneo sul transfert e cioè:

  1. I transfert sono da intendere come vissuti e percezioni distorte e distorsive del paziente, oppure come inferenze plausibili basate sugli indizi disseminati invariabilmente e necessariamente dall'analista?
  2. L’analista è da intendere come uno specchio neutro - schermo bianco nella terminologia americana - in cui si riflettono le proiezioni fantasmatiche del paziente o come coinvolto in un’effettiva interazione con il paziente?
  3. Infine, il controtransfert può essere considerato sorgente d’informazioni sul paziente?

Se prendiamo in mano per concretezza il caso clinico esemplare di cui si serve Ogden per illustrare l'identificazione proiettiva, si può facilmente verificare in che modo questa incrocia la questione su cui stiamo riflettendo. Se la situazione di stallo, nel caso del signor K, è, infatti, causata dalla sua fantasia inconscia di avidità, il suo vissuto deve essere considerato spontaneo e distorsivo e se il vissuto del terapista è indotto dalla proiezione, allora egli deve poter essere considerato uno specchio neutro, in cui la fantasia del signor K si può chiaramente riflettere ed essere riconoscibile come propria di K e non del terapista, il quale, proprio a partire da questa distinzione, può ritenere di ricevere informazioni sul vissuto del paziente e decidere che è in atto un’identificazione proiettiva, mossa da una fantasia inconscia del P. Non solo. Tutto questo potrà avvenire solo se si presuppone che ci sono, nella terapia, situazioni, in cui non ci sono né fantasie inconsce né proiezioni né pressioni interpersonali o, più in generale, situazioni in cui il P è libero da ogni influsso da parte del terapista e questi del tutto libero da influsso da parte del P. Tale presupposizione, che è la base stessa della congettura dell’identificazione proiettiva come fenomeno specifico, implicherebbe, da un lato, che esistano, in una terapia, degli spazi non interattivi, e, da un altro lato, che sia pensabile un vissuto come prodotto di una mente isolata e libera da ogni influsso.

Fu Gill a porre con nettezza il problema dello specchio neutro e quello, conseguente, dell’impossibilità logica di intendere il transfert come vissuto autoctono, distorto e distorsivo. Egli mostrò che le ragioni, che inducono a escludere la nozione di specchio neutro, non sono di natura tecnica né teorica, ma piuttosto logica e fattuale. Se, come egli affermava, “l’interazione è intrinseca alla procedura” (Gill, 1994), il terapista non può non interagire in virtù della sua posizione nel cerchio intersoggettivo, che lo porta inesorabilmente a interagire anche quando egli scegliesse di farlo ...non interagendo. Quest’argomentazione di fondo si pone come cruciale, nei tre punti caldi del dibattito sul transfert appena elencati ed è ormai riconosciuta incontestabile, sulla scorta di Gill, dalla più parte degli autori teoricamente più avveduti. Eagle, per esempio, in un argomentato saggio sul transfert e il controtransfert, rileva che il cambiamento nella concezione e definizione del transfert “fa seguito all'affermazione più sostanziale secondo cui nessun analista, e se per questo nessuna persona, può realmente funzionare come uno schermo bianco. In qualunque possibile interazione umana, tutti i partecipanti disseminano di continuo indizi ai quali ciascuno degli altri reagisce. Partendo da questo punto di vista, l'interazione transfert-controtransfert diventa essenzialmente equivalente all'interazione paziente-terapeuta” (Eagle M. N., 2000). Esattamente come Ogden non sa resistere alla tentazione di intendere l’identificazione proiettiva come un fenomeno, così la psicoanalisi non ha mai dubitato, - nonostante la discordanza netta di Rapaport, - del fatto che il transfert sia un fenomeno. Questa convinzione poggiava, appunto, sull’asserto auto-evidente, secondo cui, alla radice dei fenomeni transferali, fosse chiaramente identificabile l’azione causativa di un fantasma. Se, però, l’analisi della comunicazione e interazione umana impone di considerare, che non si può non interagire, così come non si può non comunicare, allora, anche nell’ambito della seduta e dell’interazione terapeutica, si avrà inesorabilmente a che fare con una costante interazione, in cui ogni azione sarà co-determinata dai due attori. L’interazione, infatti, non è un gradiente che l’analista può modulare, aumentare o diminuire secondo valutazioni concernenti la situazione o il quadro psicopatologico del paziente. Ciò che può variare, rispetto a questi o ad altri parametri, è solo la sua attività o la scelta delle procedure. L’inesorabile onnipresenza dell’interazione, è, invece, un inevitabile e insopprimibile corollario del fatto che la terapia si fa in due, in una situazione, inevitabilmente, intersoggettiva, in cui non si può non interagire. Se però l’interazione è caratteristica insopprimibile di ogni relazione umana, allora tanto il transfert quanto l’identificazione proiettiva e più in generale anche la comunicazione inconscia, non possono essere collocate nella classe dei fenomeni, ma in quella delle teorie che spiegano fenomeni. Di più. Se come, riconosce Eagle “l'analista non può evitare di disseminare l'ambiente di indizi”, che inesorabilmente influiscono sui significati costruiti dal paziente e se “l'analista non può fare a meno di reagire al paziente seguendo una modalità personale” allora, in nessun caso, “l'analista può realmente funzionare come uno schermo bianco, a prescindere dal fatto che un tale modo di funzionare sia utile e desiderabile oppure no”.

Ci si può adesso chiedere perché Ogden, ma in definitiva tutta la galassia che fa riferimento alla comunicazione inconscia in senso stretto si imbarchi, in questa scivolosa navigazione. E' la seconda "pietra d'inciampo" sulla cui natura è Ogden stesso a informarci.

Già nelle prime pagine del suo libro egli precisa che “L’identificazione proiettiva non è un concetto metapsicologico" e i fenomeni, cui essa si riferisce, esistono nel regno dei pensieri, dei sentimenti e del comportamento e non in quello delle formulazioni astratte. E’, dunque, un concetto che descrive, non congetture astratte, ma fenomeni osservabili nella quotidiana esperienza.

Poco più avanti, Ogden, malgrado tale netta affermazione iniziale, sembra attutirne la portata, lasciando involontariamente trasparire dietro la semplificante concretezza, un nodo assai più complesso. Egli, infatti, spiega che: “con identificazione proiettiva in parte si intende la descrizione di una interazione interpersonale (la pressione di una persona su un’altra per soddisfare una fantasia proiettiva); in parte si intende anche la descrizione dell’attività mentale di un individuo (le fantasie proiettive e introiettive, il processo psicologico). Più precisamente, però, si tratta delle descrizioni dell’interazione dinamica di due elementi: l’intrapsichico e l’interpersonale”.

E, dunque, il presunto fenomeno, almeno per una metà, è un concetto dichiaratamente metapsicologico (“la descrizione dell’attività mentale di un individuo”) mentre, per l’altra metà, si pone come “la descrizione di una interazione interpersonale” e anzi, più precisamente, diventa “la descrizione dell’interazione dinamica di due elementi: l’intrapsichico e l’interpersonale”. Per quanto si voglia allargare la nozione di fenomeno, è arduo pensare che la descrizione della dinamica tra l’intrapsichico e l’interpersonale, - qualunque cosa essa sia, - possa essere definita un fenomeno. Ogden si affretta anche a spiegare da dove nasca la necessità di quest’operazione d'ingegneria concettuale. Egli precisa, infatti, che “l’uso delle numerose proposizioni psicoanalitiche esistenti è limitato, in quanto queste servono esclusivamente per designare l’area intrapsichica e non riescono a costituire un ponte tra questa e le interazioni interpersonali, che invece forniscono il materiale principale della terapia”. La spiegazione ha il merito di toccare più da vicino la sostanza della questione, cominciando ad ammettere che l’identificazione proiettiva è un costrutto concettuale, che mira, non soltanto a descrivere e spiegare un presunto fenomeno, ma anche a risolvere un problema teorico e cioè il fatto che la teoria psicoanalitica intrapsichica per sua natura non dispone di strumenti per leggere le interazioni interpersonali, ha solo elementi che le consentono di leggere l'intrapsichico e, dunque, si rendono necessari dei concetti e un innesto teorico, che possano fungere da "ponte" tra questi due domini.

Ogden, un po' ingenuamente, tratta di fenomeni che avvengono nell'area intrapsichica e di fenomeni che avvengono nell'area interpersonale. Il fatto è che non esiste alcuna area intrapsichica come dominio di fenomeni né un’area interpersonale, in cui avvengono altri fenomeni. Tali aree non esistono in natura, come spazio, in cui possono registrarsi accadimenti o cose. Possono esistere nell’occhio e nella mente dell’osservatore, che le crea, ritagliandole dalla totalità del comportamento come campo congetturale di fattori. L’area intrapsichica esiste, quindi, solo in quanto determinata e ritagliata da un punto di vista intrapsichico, che, per la verità, nell’intenzione di Freud, non disegna la porzione intrapsichica della torta del comportamento, ma riduce il caotico mondo dei vissuti soggettivi e intersoggettivi al quadro dei fattori considerati effettivamente causativi, approntando una rete di concetti (intrapsichici), che devono rendere conto di tutta la torta e, dunque, anche dei fenomeni, che Ogden vede avvenire nel dominio interpersonale. Egli, forse involontariamente, porta un ulteriore argomento, proveniente non da astratte analisi teorico-critiche, ma dalla concreta pratica clinica, per dimostrare l’insufficienza di quel punto di vista e della torta da esso disegnata, ma la sua toppa ottiene il non brillante risultato di contribuire a tenere in vita apparente un paziente clinicamente morto, che, con accorgimenti vari, può, da lontano, sembrare ancora vivo, come accadeva all’ingombrante cadavere di Weekend con il morto. E’ stata un’interminabile sequela di accorgimenti e di toppe di tal genere a impedire alla metapsicologia freudiana un’onorevole morte e alla psicoanalisi di possedere oggi una teoria coerente.

La toppa dell’identificazione proiettiva è approntata con l’utilizzazione di una singolare epistemologia, che caratterizza frequentemente la spiegazione psicoanalitica. Tale epistemologia consiste nell’assunto secondo cui lo psicologico (l’intrapsichico, l’intersoggettivo, l’interpersonale, lo psicosociale …) è da considerare come un effettivo campo di realtà, costituito, in quanto tale, non dalla delimitazione operata dall’osservatore, ma dalla natura oggettiva dell’osservato. In questo campo di realtà oggettivato, i concetti non rendono conto di fattori, ma descrivono cose (identificazioni, proiezioni, transfert…), considerate esistenti allo stesso modo in cui esistono gatti, neuroni e succhi gastrici. Così accade che le cose, costruite dai concetti, acquistino un’evidente ancorché virtuale consistenza fenomenica, che spiega e giustifica, con i milioni di dati della clinica, i concetti, da cui sono state costruite. In tal modo, identificazioni, proiezioni, identificazioni diventano cose che non solo esistono davvero nella testa delle persone, ma si possono anche sputare fuori o portare dentro. Questa bizzarra epistemologia trascura di considerare che i concetti, nell’ambito della spiegazione psicologica del comportamento soggettuale e intersoggettuale, non possono riferirsi che a fattori e processi, che sono congetturati e inferiti per spiegare l’unico incontestabile fenomeno costituito proprio da quelle “interazioni interpersonali”, che non forniscono semplicemente “il materiale principale della terapia”, ma sono il fenomeno della terapia, cioè quanto le teorie dovrebbero e devono spiegare.