* Testo presentato al Laboratorio 2.0 di Verona il 18 - 04 - 2021.

Il concetto di vincolo, per sé, non può e non deve essere inteso primariamente come descrittivo. Non si riferisce, infatti, esclusivamente e necessariamente a nessi apprezzabili fenomenologicamente e facilmente individuabili nel racconto dell’esperienza del soggetto, anche se, già nell’auto-presentazione iniziale di un paziente è quasi sempre possibile identificare e isolare uno o più vincoli, che si impongono all’osservazione per la loro valenza fenomenica. In genere il vincolo più immediatamente evidente è un sintomo ben definito, che si presenta in una o in più classi di situazioni in modo ripetitivo e per lo più automatico. In un caso, studiato sistematicamente per oltre tre anni, si trattava di uno scoppio di rabbia incontenibile che si presentava in quattro classi di situazioni che fu possibile identificare, analizzare e descrivere. Nella maggior parte dei casi è possibile individuare analoghi vincoli in molti comportamenti sintomatici, in comportamenti idiosincratici ripetitivi (di cui il paziente può o no avere consapevolezza), in comportamenti giustificati da asserti (talvolta del tutto consapevoli, talvolta meno) della teoria della mente personale del soggetto o da asserti relativi alla sua teoria dell’altrui mente, come nel caso di quadri sintomatici caratterizzati da comportamenti esplicitamente evitanti o da inibizioni diffuse. Questi vincoli più superficiali, che manifestano una più evidente valenza descrittiva, sono da considerare in realtà il capo emergente di una catena di vincoli sottostanti e, in quanto tali, sono anche una porta attraverso cui l’analisi può penetrare per individuare tale rete.

E' necessario anche precisare che, malgrado questa seduttiva osservabilità fenomenica, non ci sono  vincoli come “cose” nella "testa" dell'analizzando allo stesso modo in cui non ci sono rimozioni, proiezioni o transfert. “Vincolo” (come rimozione o transfert anche se spesso e volentieri viene dimenticato!) è un concetto e "sta" quindi nella teoria dell’osservatore non nella "testa" dell’osservato. Come ogni concetto può avere dei referenti fenomenici, ma il suo compito non è quello di descrivere un fenomeno, ma di rendere conto e spiegare effetti e risultanze di processi non direttamente osservabili, che avvengono, per così dire, nella pancia del soggetto.

Stabilito che vincolo non si riferisce per sé a un fenomeno, ma è un concetto appartenente all’armamentario dell’osservatore e che un vincolo superficiale è da considerare come la punta emergente di una rete gerarchica di vincoli è necessario passare a considerare in che modo questa organizzazione vincolata si traduca nel vissuto e nel comportamento. Si può pensare che la rete organizzata dei vincoli funzioni, infatti, come un navigatore satellitare, che, sulla base delle informazioni contenute nel suo data-base, ti dice in ogni occorrenza se devi andare dritto, a destra o a sinistra o quale delle uscite devi imboccare a una rotonda. Il data-base del navigatore satellitare è del tutto esplicito, scritto in linguaggio digitale nella pancia dell’aggeggio e può essere modificato man mano che cambia il territorio, per esempio, quando venga introdotto un senso vietato o aperta una nuova strada. La rete dei vincoli dell'analizzando, invece, non ha un data-base conosciuto né, nei suoi strati profondi, conoscibile e non può essere modificato con la semplice modifica delle informazioni nel data-base (p.e. tramite una interpretazione). Il suo data-base è la risultanza del flusso degli eventi e dei vissuti che, man mano che accadevano nel tempo, fissavano i nessi tra percezione, valutazione emozionale, azione e\o inibizione, attesa, avvicinamento, fuga. La parte più superficiale del database è quella relativa ai vincoli più direttamente osservabili e suscettibili di descrizione che sono però da considerare, come si è detto, il capo emergente della rete, determinati dagli strati più bassi di vincoli assai più difficili da individuare e descrivere. In generale, comunque, il singolo vincolo e la rete dei vincoli funzionano in modo automatico e per lo più inconsapevole per l’io osservante così che nella situazione il soggetto potrebbe trovarsi a scegliere di “andare a destra” senza nemmeno rendersi conto che il suo "navigatore mentale" gli ha imposto di andare a destra (l’alternativa, infatti, può semplicemente non solo non essere percepita, ma proprio “non esistere”!); oppure può rendersi conto solo a posteriori - ed è in genere ciò che accade in una terapia - che nella situazione x è “andato a destra” e magari che in tutte le situazioni x non può non “andare a destra” e, in questo caso, probabilmente si darà una spiegazione giustificativa qualunque.

Nel caso cui si è fatto cenno il comportamento vincolato era facilmente osservabile e il soggetto lo considerava semplicemente come un aspetto negativo e spiacevole del suo carattere, a fronte di problemi assai più generali che riguardavano l'area dell'autostima,  quella relazionale e affettiva e un sospettable sottobosco depressivo. Il risultato complessivo di questa rete vincolata era una “vita al minimo”, un’insoddisfazione persistente e un’auto-realizzazione obbiettiva e soggettiva del tutto inadeguata rispetto alle possibilità.

Questi sintomi più generali non erano certamente riferibili a un singolo vincolo, ma sembravano piuttosto come il risultato del sistema complessivo delle sue reti di vincoli che configuravano una sorta di caratteristica globale (in senso  comportamentale e caratteriale), derivante non  da singole svolte imposte dal suo "navigatore", ma che era piuttosto da considerare come il risultato complessivo  di tante svolte,  a tanti livelli e a tanti differenti incroci. Il tipo di teorie cui siamo abituati ci porta a pensare a questi problemi complessi come al risultato di una “intenzionalità inconscia” spiegata o nei termini della teoria classica o nei termini della relazione oggettuale o nei termini di qualsivoglia teoria o genericamente nei termini di un pervasivo “inconscio” che dirige le scelte in modo non consapevolmente scelto ma intenzionalmente voluto. Queste teorie come si è spesso detto pencolano tra riduzionismo e mentalismo. La congettura che sottende queste riflessioni sul vincolo è che ciò che la psicoanalisi ha sempre inteso come l’ “inconscio” possa essere tradotto nell’azione della rete gerarchica dei vincoli. Tale rete gerarchica guida silenziosamente il comportamento non attraverso insondabili intenzionalità mentalistiche, ma con il semplice esercizio di regole vincolanti, che costruiscono significati, intenzioni e moventi, secondo una grammatica e una sintassi basate sulla regolazione emozionale (Scano, 2015, pp. 262-269) e con l’esercizio di regole (relativamente o radicalmente) vincolanti, che costruiscono significati e contesti piuttosto che con l’intervento causativo di un contenuto mentale o la proiezione di un’immagine riesumata da un lontano, non verificabile passato. In questa ottica un quesito intrigante è se l’analisi dei vincoli superficiali (alla ricerca delle reti sottostanti) non possa anche fungere da fossile-guida per illuminare i processi che poi determinano i veri “sintomi” più profondi e sotterranei dell'analizzando.

Il vincolo come attrattore

Un vincolo in definitiva è un apprendimento fortemente marcato da un vissuto emotivo, che limita il ventaglio delle azioni possibili o può prescrivere un’azione in modo direttivo o persino coatto. E’ cioè un apprendimento nell’ambito del rapporto del soggetto con il suo ambiente sulla base delle risposte che la sintassi emozionale dell’ambiente (nell’infanzia essenzialmente materno e genitoriale) ha sulla tastiera emozionale basica (emozioni primarie) e successivamente sulle emozioni derivate del soggetto. Tale apprendimento disegna lo spazio intersoggettivo del soggetto e il ventaglio delle sue possibili azioni nei confronti dell’ambiente. Non si tratta naturalmente di un singolo apprendimento ma di grappoli di elementi iconici/rappresentazionali/ideativi fortemente marcati, che necessariamente si strutturano in modo gerarchico nel senso che i vincoli più bassi, restringendo il ventaglio delle scelte o prescrivendo una scelta, determinano, con la limitazione delle azioni possibili, quelli più alti. Ciò significa che ogni vincolo superficiale potrebbe o dovrebbe essere compreso e spiegato come determinato dalla rete dei vincoli più bassi, nel senso che diventa, in un certo senso, una “conseguenza di”. E’ verosimile che i vincoli veramente bassi siano del tutto inaccessibili sia al soggetto che al terapista. Quelli accessibili sono quelli che in qualche maniera sono entrati nelle narrazioni del soggetto nell’allora e nell’adesso.

Se ipotizziamo una tale rete o concatenazione di vincoli al modo che un vincolo superficiale può essere considerato come il capo emergente di una catena dei vincoli, bisognerebbe anzitutto avere qualche idea sul modo in cui tale rete abbia potuto formarsi e qualche ragionevole congettura sul suo funzionamento. In secondo luogo sarà poi necessario analizzare il rapporto tra questi meccanismi che dovrebbero spiegare l’intenzionalità inconsapevole del soggetto e il normale comportamento realistico guidato dalle conoscenze e dalle intenzioni dette e consapevoli.

La caratteristica più generale del vincolo è il suo funzionare come attrattore e tale caratteristica offre una possibilità di risposta al primo di questi due quesiti. Detto nella maniera più semplice possibile, un vincolo in definitiva è appunto uno schema stabile tra una percezione (e/o un contenuto ideativo-rappresentazionale), un’emozione e un’azione. In quanto nesso stabile è fisso, ma questa fissità è da leggere nei termini di una continua attività attrattiva, che tende a modellare secondo lo schema fisso gli elementi del flusso del vissuto che in qualche modo si lasciano ricondurre allo schema o comprendere nello schema. Se un bambino si avvicina sorridente e felice a una cane nero di media taglia e questo, magari perché ha visto o sentito avvicinarsi un altro cane, spuntato dietro al bambino, improvvisamente abbaia minacciosamente, può suscitare nel bambino una forte reazione di paura, che, supponiamo, marca l’immagine “cane nero”. Il nesso cane nero/paura può successivamente allargarsi ai cani non neri e comunque grossi e successivamente a tutti i cani anche al barboncino della signora accanto e magari ai gatti che comunque hanno quattro zampe, una bocca e dei denti. In questo senso il nesso è stabile ma come galleggiasse o scorresse su una superficie liquida o in un territorio fluido. Quando ho cominciato a riflettere sulla nozione di vincolo pensavo che l’attrazione si esercitasse essenzialmente sul versante percettivo/rappresentazionale con un processo di semplice trasferimento da un percetto A a un percetto B per via logica (p.e. una somiglianza in un qualche elemento rilevante), analogica (p.e. una equivalenza nel funzionamento come una fotocellula e un interruttore che sono "simili" perché ambedue accendono una lampada) o metaforica ( un metaforizzante per un metaforizzato penoso A, può a sua volta essere metaforizzato per un altro metaforizzante B, che può diventare in tal modo metaforizzante di A). Continuo a pensare che questa sia la via più semplice e più battuta nei trasferimenti di significato. Un bambino che avesse un padre collerico e fortemente punitivo potrebbe stabilire un nesso tra un vissuto emozionale di paura/terrore paralizzante e l’immagine del padre. Tale immagine potrebbe avere aspetti percettivi come l’essere alto e grosso, l’avere folte sopracciglia, una voce baritonale, delle mani grosse… La marcatura “paura/terrore paralizzante” (e, dunque, l’aspettativa di) potrebbe essere trasferita per via logica su un individuo non-padre che fosse alto e grosso o avesse folte sopracciglia, o mani grosse ecc. Potrebbe però essere trasferita per via analogica su un maestro o una qualunque “autorità”, che in qualche modo sta in alto mentre il ragazzino sta in basso e per via metaforica su qualunque elemento in grado di metaforizzare, perché per esempio vissuto come “alto” o come “grosso” (come un grosso animale o magari un … tir!), l’induzione della “paura/terrore paralizzante”!

Il nesso marcato del vincolo potrebbe però trasferirsi anche in altri due modi. Anzitutto il vincolo tra emozione/anticipazione/azione potrebbe essere trasferito come un “tutto”, come una sorta di modulo pre-confezionato come un martello o un cacciavite adatto all’uso. Il soggetto, p.e., potrebbe aver sperimentato un vantaggio della connessione disturbo emozionale/rabbia/esplosione rabbiosa e utilizzarla in situazioni differenti che non sono necessariamente connesse dal punto di vista del contenuto ideativo, ad esempio, in una discussione durante una lezione di filosofia o nel corso di una cena con amici o in una interazione con la cugina del fidanzato o della fidanzata. In questo senso il vincolo funzionerebbe appunto come un format esportabile in una variabilità di contesti. La marcatura in questo caso sarebbe esercitata dalla valutazione emozionale dell’azione in uscita (e non dello stimolo in entrata), per esempio, dallo sperimentare lo scoppio di rabbia come un elemento risolutore del vissuto crescente di pressione emozionale o come una sorta di evacuazione che ristabilisce una “normalità” emozionale. In questo caso il vincolo sarebbe più specificamente effetto della marcatura del risultato.

Il secondo ulteriore modo di esercitare la funzione di attrattore il vincolo potrebbe ricavarla anche dal vissuto emozionale marcato. In un caso da me seguito in supervisione, il soggetto descriveva l’elemento emozionale-corporeo del vincolo come angoscia, chiusura, disperazione. Non si tratta di un’emozione discreta ma di una configurazione emozionale globale, come dire, ameboide, che potrebbe “comprendere” vissuti emozionali anche abbastanza differenziati r diversamente motivati. Prer esempio un’ansia particolarmente accentuata rispetto a un evento temuto x potrebbe indurre un vissuto per qualche aspetto somigliante alla “chiusura” o all’angoscia e l’impotenza determinata dal fatto di non saper come superare il problema potrebbe indurre un vissuto simile alla disperazione e attivare il vincolo e l’azione. Penso che anche in questo modo potrebbe allargarsi l’area di attivazione del vincolo.

Un secondo elemento su cui poggia la funzione attrattiva del vincolo è invece una caratteristica più generale della mente. Noi cerchiamo di conoscere e padroneggiare lo sconosciuto a partire da ciò che è conosciuto: rispetto a un oggetto, un’immagine un problema nuovo tendiamo a ricondurlo a ciò di cui abbiamo già conoscenza ed esperienza. E’ una caratteristica generale della mente e, per la verità, lo è anche della scienza.

Non è per il momento possibile stabilire se la fluidità derivante dalla funzione attrattiva così descritta sia sufficiente a spiegare la costruzione delle reti grazie semplicemente alle tre differenti modalità di attrazione corrispondenti ai tre tipi di meccanismo di traferimento indicati. Si può infatti anche pensare che le tre tipologie di trasferimento caratterizzino, invece, vincoli di classe differente oppure che si debbano invece ipotizzare vari tipi di vincoli in base a criteri differenti, ma che possano utilizzare ciascuna i tre diversi meccanismi di trasferimento.

Il secondo problema, quello del rapporto tra vincoli e comportamento finalizzato realistico e alto, è più complesso. Queste congetture sul vincolo hanno uno scopo preciso: intendono spiegare quei comportamenti che tradizionalmente la psicoanalisi include nella classe “intenzionalità inconscia”. Accanto a quella inconscia esiste, però, e in modo almeno apparentemente ben più evidente, una intenzionalità consapevole e realistica. Un soggetto può, al di là dei suoi comportamenti vincolati, fare tranquillamente la spesa, uscire per andare a scuola se è un insegnante, preparare le lezioni, pianificare un viaggio o un giorno di vacanza, seguire in modo razionale il percorso per raggiungere la casa di un amico o la salumeria in cui compra il prosciutto. Queste scelte sembrerebbero governate, quindi, da regole razionali differenti rispetto a quelle che governano il comportamento vincolato. Anche in questo ambito esistono schemi ripetitivi cui però in genere ci riferiamo con il termine abitudini. Anche le abitudini possono essere più o meno adeguate, ma in genere, per le loro eventuali disfunzioni, sembra esagerato l’uso dell’aggettivo “irrealistico”. Forse siamo portati, però, ad allargare troppo il fossato che divide i due ambiti dell’intenzionalità e probabilmente è più corretto pensare a un continuum in cui la differenza netta è tra i due punti terminali del continuum mentre i punti intermedi sono più ragionevolmente da intendere come caratterizzati da una mistura di adeguatezza/inadeguatezza e di realismo/irrealismo a seconda della distanza dai due capi del continuum.

I due ambiti di comportamento non sembrano, infatti, così irrimediabilmente contrapposti come sembrerebbe pretendere la contrapposizione tra processo primario e secondario, ma del resto anche in quel caso si trattava per lo più di misture o di compromessi tra i due tipi di processi. In realtà, tutte le nostre intenzioni e azioni sono guidate da dei “come si fa”. I “come si fa” delle nostre azioni più realistiche e ragionevoli sono guidate da conoscenze, convinzioni e teorie esplicite o esplicitabili che poggiano su esperienze, conoscenze e, talvolta, persino su teorie o conoscenze scientifiche. Quelli invece che regolano la parte più ampia del nostro comportamento soggettuale e intersoggettuale poggiano invece su dei “come si fa” costruti sulla base della valutazione dei nostri successi e insuccessi e delle esperienze di benessere, paura, dolore e angoscia, spesso implicite o persino non esplicitabili. La modulazione dell’azione nei due territori e dunque anche dell’intenzionalità realistica sembra, comunque, dipendere dallo stesso sistema di controllo e dunque dal sistema delle emozioni. Del resto fu l’assenza di progettualità e il deficit nel comportamento adeguato in ambito personale e sociale, dopo la guarigione di Cage, a indurre Damasio a riprendere in mano lo studio del suo caso e a indirizzare il programma di ricerca. Egli ha così successivamente dimostrato che lesioni alla regione orbitaria prefrontale determinano un deficit di discernimento e la tendenza a prendere decisioni socialmente inappropriate. Ci sono buone ragioni per pensare che anche il comportamento realistico e progettuale sia governato dallo stesso sistema di regole che governa i vincoli responsabili dell’intenzionalità inconsapevole. Stabilire il modo in cui si interconnettono i due ambiti è al momento complicato ma essenziale. Poiché la provvisoria analisi del vincolo sin qui condotta sembra sottolineare la sua azione nell’ambito relazionale del soggetto è possibile ipotizzare:

1. che l’azione progettuale realistica e adeguata sia tanto più libera dai vincoli “relazionali” quanto più è svincolata dai legami e rapporti con le persone e più direttamente mirata a target strumentali e obiettivi e tanto più apparentata ai meccanismi dell’intenzionalità inconsapevole quanto più questi sono connessi all’ambito relazionale;

2. che la possibile cannibalizzazione del comportamento e della progettualità realistica da parte di quella irrealistica sia prevalentemente e più direttamente dovuta alle emozioni derivate (pudore, vergogna, senso di colpa ecc.) piuttosto che a quelle primarie;

3. Che a livello consapevole la forza motivazionale si esprima, limitando il ventaglio della scelta, tramite asserti e convinzioni relativi a quella che, in termini presi in prestito dal cognitivismo, possiamo indicare come teoria della propria e dell’altrui mente;

4. Che per questa via i successi, i fallimenti, gli insucessi e le limitazioni inibenti l’azione siano un canale importante per la regolazione positiva o negativa dell’autostima.

5. Che a questo livello sia possibile situare il meccanismo che trasferisce a livello più generale e dunque all’ambito delle grandi scelte e dei grandi obiettivi le conseguenze dei campi di vincoli più bassi o più settoriali.

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