TIRARE LA LINEA I: LA PSICOANALISI CHE C’ERA.
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Questo testo - qui suddiviso in tre parti - è stato presentato a il 28. 05. 2016 alla SIPRe (Milano).
Molto tempo fa, quando provavo a smettere di essere bambino senza riuscire a essere giàragazzo, mi capitòdi fare una scoperta, che aggiunse uno spicciolo consistente al salvadenaio della mia autostima. Dico scoperta per dire. Erodoto e Tucidide mi avevano preceduto di qualche anno! Ci arrivai da solo, però. Per me, quindi, fu una “scoperta”. Ricordate il libro di storia della prima media? Sfogliatelo mentalmente… Sumeri, Assiri, Babilonesi, Egizi, Ittiti, Cretesi, Micenei…Occupavano in fila, uno dopo l’altro, il palcoscenico della storia. In ginnasio…da capo! Stesso ordine, ma più confuso perchési aggiungevano Kurriti, Mitanni, Cassiti, Elamiti, Amorrei, Ebrei …Fu la battaglia di Kadesh a farmici pensare. Ramses combatteva con gli Ittiti, dunque … si mischiavano in guerre, traffici e contese! Chi? Con chi? Quando? Ecco la scoperta. Tirai su un foglio abbastanza grande una linea continua. A sinistra, sotto, scrissi 3000 A.C. e sopra, Sumeri, più sopra Egizi, poi, procedendo verso destra, aggiungevo le date di ingresso e di uscita degli assiri, dei babilonesi e delle altre culture man mano che la linea del tempo procedeva. Linee continue parallele segnavano la persistenza nel tempo, linee verticali indicavano i contatti, pacifici e non, tra popoli e culture. La sensazione fu di aver fatto chiarezza in tutto quel disordine perché potevo capire, con un colpo d’occhio, chi, con chi, quando e dove si potevano o dovevano mischiare. Seppi di aver fatto una cosa intelligente quando il professore mi regalòun 8 del tutto inatteso - 8, a quei tempi, era il massimo; 9 lo avevano dato, forse, a Dante e a Galileo; 10 era riservato a Dio! - e mi mise in mano un libro dalla copertina gialla sulla guerra tra Atene e Siracusa, che aveva appena letto. Quel libro mi consentì un’altra scoperta: per la prima volta mi resi conto che andare per fratte, inseguendo la curiosità, èmeglio che seguire il sentiero sicuro del manuale. Da allora mi ècapitato spesso di dirmi: “qui bisogna tirare la linea!”.
A riguardo della psicoanalisi mi capitò, la prima volta, sul finire degli anni settanta. Credo sapete di quello sparuto gruppetto - in tutto non facevamo neanche i dodici apostoli, - che si riuniva a Via Casilina. Il giovedì si tenevano le lezioni. Il martedì, invece, dalle sette e mezzo, si studiava, si parlava, si discuteva e si litigava. A oltranza! In genere, non c’era un ordine del giorno, ma anche quando c’era, in fondo, si parlava sempre della “cosa”. La “cosa” era la “psicoanalisi come dev’essere”. Non sapevamo come doveva essere. Forse pensate che noi giàsi parlasse di soggetto, soggettività, intersoggettività. Non ècosì! Avevamo soltanto smesso di credere che la psicoanalisi fosse davvero una scienza normale come si diceva ancora ed eravamo abbastanza certi che la “psicoanalisi-com’era” non era la psicoanalisi-come-dev’essere. In quel momento, era giàabbastanza aggrovigliata. C’era la Psicologia dell’Io, predominante in Nord America, che si riteneva lo sviluppo genuino della disciplina fondata da Freud. In Gran Bretagna si erano attutite le infinite controversie tra la corrente kleiniana e quella guidata da A. Freud e da Jones e si era sviluppato impetuoso il non lineare contributo dei teorici della relazione oggettuale. In Sud-america, l’Argentina era marca kleiniana. In Francia prevaleva la rilettura lacaniana, mentre in Germania si andavano affievolendo gli echi della Scuola di Francoforte, che tramite Fromm aveva rinvigorito la corrente culturalista americana. Il noto articolo di Hartmann (1950) sull’Io, che rileggeva l’Io narcisistico del 1914 secondo un’accezione prossima alla nozione di “Self”, aveva consentito una robusta contaminazione tra la psicologia dell’Io e le istanze della relazione oggettuale, promuovendo teorie come quella della Mahler, della Jacobson e di Kernberg, ma, soprattutto, aprendo la strada alla prepotente revisione kohutiana, che minacciava la posizione dominante della psicologia dell’Io. In Italia prevalevano le posizioni kleiniane e lacaniane, poiché, a causa del fascismo, per molto tempo gli aspiranti analisti avevano dovuto emigrare a Londra o a Parigi per il loro training. Giungevano anche i segnali dissonanti della non ovvia riflessione bowlbiana.
Questa la situazione. Antecedentemente, nel 1958, si era svolto un importante convegno alla New York University, in cui la natura scientifica della psicoanalisi fu messa al vaglio della filosofia della scienza. Il giudizio degli epistemologi, nonostante la difesa di Arlow e Hartmann, fu inesorabilmente negativo a causa dell’impossibile traduzione operazionale degli asserti psicoanalitici. Rapaport però aveva raccolto la sfida e per due decenni aveva lavorato alla formalizzazione della teoria con l’intento di sottoporla a verifica. Il mondo psicoanalitico, però, in quelli anni, dibatteva piuttosto su tre grandi problemi:
1°. Il primo era stato innescato nel 1946 da Alexander che, con la famosa formula della “esperienza emozionale correttiva”, aveva lanciato un sasso insidioso quasi quanto quello con cui Davide irrise il gigante filisteo. L’asserto di Alexander non metteva in dubbio soltanto l’indiscussa fiducia nella triade interpretazione-insight-cambiamento, ma, evocando un fattore di cambiamento tarato sull’esperire invece che sul ricordare, metteva in discussione l’intera concezione del metodo e, conseguentemente, la piattaforma teorica su cui il metodo poggiava. La questione si chiuse nel 1961 al Congresso di Edimburgo, con il trionfo del gigante e la restaurazione ortodossa, che sterilizzòil sasso di Alexander con la riaffermazione dell’unicità dei fattori attivi conoscitivi nella forma sistematizzata da Eissler (1953) e dai suoi parametri.
2°. La nascita di nuove formule psicoterapeutiche rendeva poco concorrenziale l’oneroso impianto dell’analisi freudiana e molti analisti si trovarono costretti a modificare il setting, riducendo drasticamente il numero delle sedute e dando vita a quella che sarà chiamata Psicoterapia psicoanalitica. Si aprì così l’infuocato dibattito sul rapporto tra psicoanalisi (l’oro) e psicoterapia psicoanalitica (il bronzo), il cui spessore emerge facilmente, confrontando il famoso articolo di Gill del 1954 e il suo remake di 30 anni successivo.
3°. Infine, la psicoanalisi inglese poneva con forza il problema del “self”, del “mondo interno”, dei “rapporti oggettuali”, ma si preoccupava assai poco del rapporto da stabilire tra queste istanze soggettive e relazionali, la teoria dei processi e l’apparato metapsicologico.
In questa situazione aggrovigliata ci sembrava necessario tirare la linea per mettere ordine nelle cose. Tracciarla però era compito assai più complicato della semplice trovata di fissare la linea del tempo per sistemare Sumeri, Egizi, Babilonesi e Ittiti. Si trattava di disegnare la linea pulita della teoria per giungere più spediti alla psicoanalisi come dev’essere.
A quei tempi era chiaro che la psicoanalisi aveva tre differenti livelli di teoria: la teoria formale, indicata più spesso come metapsicologia, la teoria clinica o speciale e la teoria della tecnica. La prima èla vera teoria, perchésu di essa poggiano le altre due. Non ci vogliono centinaia di pagine per descriverla: Freud nel VII capitolo dell’Interpretazione dei sogni se la cava con poco più di una ventina. Rapaport se ne fa bastare anche meno. Ridotta all’osso, la metapsicologia si riduce ai “punti di vista”: topico, economico, dinamico, strutturale, cui si deve aggiungere quello genetico, non esplicitato da Freud. Si tratta di veri punti di vista, che guardano al vissuto e al comportamento dal punto di vista, appunto, della coscienza e dell’inconscio (topico), da quello delle energie (economico), da quello delle forze (dinamico), da quello delle funzioni strutturate (strutturale) e, infine da quello del divenire nel tempo (genetico). La metapsicologia, astratta e distante dal vissuto, è poco maneggevole, per capire Giacomo o Maria, per questo la psicoanalisi si era dovuta dotare anche di una teoria di medio livello, detta in genere teoria clinica che, grazie a generalizzazioni più vicine all’osservazione e all’esperienza, consentiva l’applicazione della teoria generale al caso singolo e al singolo sogno, sintomo o comportamento. Lo sviluppo psico-sessuale, l’Edipo, il narcisismo, i meccanismi di difesa, la formazione dei sintomi sono capitoli della teoria clinica, le cui modificazioni o confutazioni, non toccano la sostanza della teoria psicoanalitica. Infine, per utilizzare queste teorie in un intervento tecnico controllato, era necessario un ulteriore livello di teoria, il cui nome appropriato era metodo, ma, in genere, veniva indicato come teoria della tecnica.
I tre livelli non sono autonomi; dipendono logicamente l’uno dal’altro. Anzi, a voler essere precisi, tutta la piramide grava su un unico assunto, che si chiama “principio di costanza”, da cui dipende il principio del piacere, che regola l’economia, su cui poggia la dinamica, la quale, a sua volta, regge la topica con la fondazione sia dell’ inconscio topico che della più tarda struttura tripartita Io, Es e Super-io. Da questa concatenata architettura dipendono tutti i concetti della teoria clinica e, quindi, pezzi da novanta come le nozioni di fantasia inconscia, desiderio inconscio, intenzionalità inconscia, transfert e ancora lo sviluppo psicosessuale, il narcisismo, i meccanismi di difesa e via enumerando. Anche gli elementi essenziali del metodo dipendono dall’insieme del grappolo, perché, soltanto se reggono tutti gli anelli soprastanti, posso ragionevolmente pensare che, se rivelo a Maria le sue segrete intenzionalità inconsce, che la costringono a rovinarsi la vita, sarà in grado di smettere di rovinarsela. Ciò equivale a dire che l’assunto tecnico, che si può sintetizzare nella triade interpretazione-insight-cambiamento, presuppone la totalità della metapsicologia.
Oltre all’intrico delle differenze di scuola, c’erano altri segnali che suggerivano la necessità di tirare la linea. Erano segnali che vivevo in prima persona perché, avendo dedicato, per la tesi di laurea e la sua pubblicazione, sei anni allo studio storico-critico della teoria freudiana, mi ero andato sempre più convincendo che in quella costruzione le fondamenta non fossero giuste per quella pianta, che la pianta non fosse giusta per quell’alzato e che, per muoversi dentro quello spazio concettuale, era necessario ricorrere continuamente a invisibili “funi appese al cielo” (Dennett). Come non bastasse, giungevano da occidente altri segnali sinistri. Erano tuoni e lampi ancora lontani. Poi fu diluvio! Il lavoro di Rapaport aveva confezionato un imprevisto, involontario siluro che, armato puntigliosamente da Rubinstein, aveva colpito dritto il picciolo che reggeva tutto il grappolo delle tre teorie, segando di netto il principio di costanza e il concetto di energia. Era la santabarbara. Colpita e affondata!
Immagino che qualcuno di voi stia pensando: sì! va bene! Perchéci parli di queste vecchie cose di 40 anni fa… la metapsicologia… la teoria formale … il principio di costanza? Per capire la crisi che sta facendo a pezzi la Siria mica serve andare giù giù a frugare nelle viscere degli Ittiti! Certo! E’che vorrei farvi toccare con mano l’allora urgente necessità di tirare la linea…dapprima per lo sfrangiarsi della teoria in rivoli incomunicanti, poi per il suo crollo catastrofico. Ho, però anche un secondo intendimento. Le teorie sono una bellissima cosa, ma sono anche strani animali con una vita tutta loro e strane abitudini. Tu credi di pensare le teorie, ma èmolto piùvero che le teorie … pensano te. Quest’abitudine può congegnare trappole pericolose. Temo che, negli ultimi 30 anni, in una di queste trappole la psicoanalisi sia cascata con tutte le scarpe così che, magari anche oggi, quando tutto il mondo sembra diventato relazionale e intersoggettivo, potrebbe essere necessario … tirare la linea.
La banda dei sanculotti di via Casilina giunse presto a stabilire che, morta la teoria, era certo giusto piangerla, seppellirla con tutti gli onori per volgersi, però, dopo un congruo lutto ma prima possibile, a tirare un’altra linea, che consentisse di ordinare in modo nuovo le cose. Questo proposito traspare nel nome stesso che si diedero. Oggi è facile. Uno dice “Psicoanalisi della relazione” ed è qualcosa che va giù tranquilla. Per voi é un nome, che entra leggero nell’orecchio, scivola diritto per il nervo acustico e, giunto nella stanza centrale del vostro cervello, entra come uno di famiglia e i vostri gnomi mentali continuano a fare ciò che stavano facendo senza nemmeno badarci. Allora mica era così. Quel nome era una cosa né tonda né liscia. Era una pigna tutta bozzi e punte che quando, scorticando la rampa timpanica, arrivava nella sala comandi, metà degli gnomi incrociavano le braccia e la guardavano con sospetto: “e che è ‘sta cosa?”.
“Psicoanalisi”, oggi, ècosa fluida, che ognuno si puòaggiustare a piacere, come il pongo. Allora era cosa dura, precisa, una sfera di porfido nero. Apparato, energia psichica, realtàpsichica, pulsione, difesa, investimento, controinvestimento, rimozione, Io, Es, Super-io… La sfera non aveva un incavo o un gancio, cui appendere una cosa come “relazione”. “Psicoanalisi” spiegava sogni, sintomi, fantasie e relazioni. Tutto. Specificare “Psicoanalisi” con un “della” poteva significare soltanto l’applicazione della teoria a un oggetto particolare così se si diceva “psicoanalisi dei sogni o della relazione”, si doveva intendere la “procedura di spiegazione di...”.
Noi perònon s’intendeva questo. Quel “della” era una specificazione di psicoanalisi, non del suo oggetto. Ed era cosa irriverente e scorretta. Suonava male ed era anche poco presentabile. Per non dire, che “relazione”si sapeva mica cos’era: non esistevano mappe di “relazione”.
Discutendo e dibattendo si riuscì a chiarire che non si trattava di spiegare “relazione” con “psicoanalisi”, ma piuttosto “psicoanalisi” con “relazione”. Forse non lo sapevamo dire in modo così chiaro, ma a questo si giunse ed era l’inizio degli anni 80. C’era, infatti, un modo semplice e comodo, per dare un senso presentabile a “psicoanalisi della relazione”. Bastava accodarsi ai relazional-oggettuali. Facile, accettabile, utile per le … relazioni che contano. Era una strada in discesa, che, però, portava dritta al mentalismo. Cominciavamo, infatti, a capire che la mente, - ed era l’idea di soggettivitàe intersoggettivitàche cominciava a presentarsi! - non sta nella scatola cranica, èpiùfuori che dentro, ma èfatta di corpo, di neuroni. Di neuroni e di altre menti, che stanno fuori e, per entrare nel “dentro” della mente di Sara, devono ridiventare neuroni. I neuroni, però, tirano facile al riduzionismo!
Con il procedere degli anni ’80 questo ci diventava più chiaro e conseguentemente sembrava logico ci si dovesse rimboccare le maniche per tirare sul foglio una nuova linea, coerente con quanto sapevamo del funzionemento del cervello e con quanto le altre scienze dell’uomo ci dicevano a riguardo dell’azione umana. Non era semplice, però, per due motivi. Anzitutto eravamo impastati nella rete concettuale della teoria classica che, per questo, modellava i nostri tentativi di ripensamento della teoria più di quanto noi riuscissimo nel nostro tentativo di modificarla. Adesso èfacile capire che era l’idea stessa di “apparato psichico” a produrre il vischio che ci impaniava. E’ una delle conseguenza delle strane abitudini delle teorie cui prima facevo cenno. L’altro ostacolo invece era connaturato alla teoria psicoanalitica. A Freud era del tutto estraneo il concetto di “soggetto”, che, dunque, mancava del tutto nel nostro armamentario. Questo gli impedì (a lui, ma anche a noi!) di assumere un punto di vista organismico, in grado di giustificare dal basso l’unità bio-fisio-psicologica del soggetto, che doveva essere garantita invece in termini psicologici, e dunque dall’alto, delegando allo psicologico, e dunque a una parte, una funzione che logicamente dovrebbe essere attribuita alla totalità. In un certo senso, tutto il nostro lavoro, nella prima parte degli anni ’80, era volto al tentativo di superare questi due impedimenti, andando un po’alla cieca e risalendo il canalone scivoloso del concetto di Io, perché, a causa dell’idea di apparato e dell’assenza della nozione di soggetto, non potevamo intravedere altra possibilità se non quella di partire dall’Io.
La misura e la conta del lavoro compiuto ce la dava il convegno annuale, una specie di seriosa, goliardica, gita fuori porta. Il lavorio confuso di quei fumosi martedì, si coagulava in relazioni scritte, poi presentate e discusse, in una due-giorni di studio, che si svolgeva all’inizio dell’estate, in luoghi un po'sperduti, in cui elemento ricorrente era la presenza di un lago (Scanno, Ariccia). Erano relazioni corpose, estenuanti. Roba di ore! A rileggerle oggi (tre relazioni sono state fortunosamente ritrovate da Susanna Porcedda in un vecchio faldone dimenticato in cantina!) mostrano tutta la fatica a superare quei limiti e il faticoso approdo alla nozione di soggetto. In particolare mi ha fatto piacere ritrovarne una che si chiamava la “Fabbrica dei desideri”. In modo non del tutto consapevole, era l’anticipazione di un punto di vista organismico. Rileggendola, mi sono sorpreso a costatare che non ho fatto altro, in seguito, che sviluppare quello schizzo troppo fantasioso.
Faticosamente, però, arrivammo al soggetto! Una relazione al primo congresso ufficiale della SIPRe nel 1985 aveva come titolo “La rimozione del soggetto nella teoria psicoanalitica” e “Il soggetto psicoanalitico” è il titolo di un libretto pubblicato nell’ ’87, che forse detiene il record di libro meno letto della storia.
Mentre noi cosìsi faticava, accadevano cose importanti. Nel 1982 apparve il saggio di Gill sull’analisi del transfert e nell’’84 quello sulla psicoterapia psicoanalitica. Furono salutati con entusiasmo da quanti timidamente cominciavano a pensare al transfert in termini di interazione. Molto piùtardi, nel 1994, apparve il suo ultimo libro, che non tracciava la linea, ma indicava la direzione. Nel 1983 arrivò, invece, il libro di Greenberg e Mitchell sulle relazioni oggettuali che legge tutta la storia della psicoanalisi come il lento e tortuoso tentativo di superare il modello pulsionale per approdare a quello relazionale. Secondo Mitchell questa spinta è chiaramente visibile nelle formulazioni dei teorici delle relazioni oggettuali, che mirano a colmare lo iato tra il modello pulsionale e quello relazionale sino a portare sul finire del secolo all’affermazione chiara del secondo.
Un evento si ostinava invece a non accadere: il mondo psicoanalitico mostrava di non aver sentito le campane a morto dei rapaportiani e continuava a parlare di pulsione, libido, Edipo, come nulla fosse successo. Nel 1988, però, nella sessione inaugurale di un congresso dell’IPA e, quindi, come dire, ex cathedra, Wallerstein, che ne era il presidente, pronunciò la famosa prolusione dal titolo “Una o molte psicoanalisi?”. Era la risposta, ma non quella che avremmo sperato. Wallerstein spiega che la teoria di cui la psicoanalisi ha bisogno è una teoria di basso livello, in grado di elaborare i dati direttamente osservabili nell’interazione terapeutica e questa è anche tutta la teoria che i suoi dati possono sostenere e provare. Nel suo pensiero, tale teoria di basso livello è la teoria del transfert e della resistenza, del conflitto e della difesa. La teoria psicoanalitica èsemplicemente la teoria clinica! La metapsicologia - disse - non èla nostra teoria, ma la nostra mitologia, e non ce n’è una sola, ma tante. Così le teorie della Klein e dei post kleiniani, dei relazional-oggettuali, di Kohut e persino dell’incolpevole Schafer, (che si era tanto affaticato per propugnare l’idea che si dovesse fare a meno, persino, di una teoriuccia piccola piccola!), si ritrovarono promosse al rango di metapsicologie. La prolusione di Wallerstein chiuse definitivamente il discorso sull’esito dell’impresa di Rapaport e sulla morte della teoria formale. Se qualcosa èmorto fu qualcosa di irrilevante: è morta una metafora e non c'èbisogno alcuno di tirare una linea nuova sul foglio. Ci basta la teoria clinica. Da allora ogni discorso sulla teoria generale si èdefinitivamente estinto.
Accadevano peròanche altre cose. D’incanto, la psicologia dell’Io perse la sicurezza nel suo ruolo di erede autentica della tradizione psicoanalitica. Con la sicurezza e la supremazia perse anche il nome. Analogo destino ebbe la kohutiana psicologia del sé. Perse lo slancio, che ne alimentava una crescita apparentemente irresistibile sino a trasformarsi, in alcune sue componenti, in senso marcatamente relazionale o costruttivista come del resto accadde a consistenti minoranze dell’ex-psicologia dell’Io.
Il concetto di conflitto andòincontro a una rapida eclisse, divenendo sempre più raro nella letteratura e, improvvisa e inattesa, giunse anche una generalizzata preterizione dei concetti pulsionali. Non un dichiarato abbandono, ma una silenziosa e non dichiarata consegna all’oblio. La difesa della teoria pulsionale divenne rara, anzi, equivalente ad un’auto-dichiarazione passatismo. In questo orizzonte nebbioso, si doveva, infine, registrare l’irresistibile ascesa dell’intersoggettivismo americano.
Questi inattesi fenomeni non si accompagnarono né ad un’analisi critica delle conseguenze, che il venir meno del quadro pulsionale avrebbe dovuto implicare per la stragrande maggioranza dei concetti, non solo della metapsicologia, ma anche della clinica, néad una qualunque dimostrazione del fatto che si possa effettivamente espellere la pulsione dal corpo teorico e continuare ad usare concetti come transfert, rimozione, difesa, inconscio, fantasia inconscia. Di fatto la teoria formale fu relegata in un limbo: nédifesa néconfutata, silenziosamente avvolta nell’ovatta e dimenticata dietro la convinzione che la teoria psicoanalitica èla teoria clinica nelle varie declinazioni di scuola.
Questa inerziale chiusura dei giochi ha incoraggiato:
1. il giàrobusto disinteresse degli psicoanalisti e degli psicologi clinici per la teoria;
2. l’idea che i cosiddetti paradigmi siano auto-fondati, auto-giustificati, auto-sufficienti e, persino, equivalenti;
3. la certezza che i concetti della teoria clinica siano del tutto validi e che, col ritocco di una qualche vernice, magari relazionale o intersoggettiva, siano forti e vitali;
4. la tendenza al “fai da te”e al “taglia e incolla” nella costruzione di personali teorie per la propria pratica clinica, confidando che esista, da qualche parte, un pavimento, che regge un’improbabile scaffale nei cui ripiani collocare il “ciòche mi piace” di Winnicott, di Kohut, di Weiss, di Stolorow o di Mitchell;
5. la sicurezza che l’esperienza clinica giustifica l’... esperienza clinica!
TIRARE LA LINEA II: LE SICUREZZE DEL DOTTOR CANDIDO E LE PECORE DI POLIFEMO.
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Ho detto prima che le teorie possono architettare trappole in cui si puòcadere con tutte le scarpe. Ecco qui il Dott. Candido e Sara, la sua paziente. Il dott. Candido èuno stimato analista che, come Wallerstein, non nutre dubbi sul fatto che esista una solida teoria psicoanalitica, che da cento anni trova ogni giorno mille inconfutabili prove della realtà del transfert, della resistenza, del conflitto e della difesa. Candido, però, che di Wallerstein èmolto piùgiovane, èconvinto che tale teoria sia anche in costante, progressivo e positivo sviluppo, come dimostrano i contributi di Mitchell, di Stolorow, di Stern e di altri autori giustamente noti. Egli apprezza le ricerche sulla diade madre-bambino e le acquisizioni delle neuroscienze, sopratutto quelle sulla memoria e sui neuroni specchio, che confermano la rilevanza della comunicazione inconscia e delle costruzioni intersoggettive che si disegnano nelle sue interazioni con Sara. Già... Sara! Dopo poche sedute il dott. Candido conosce i fatti piùimportanti della sua biografia, i personaggi e le vicende della sua famiglia, le scelte di vita, gli studi, il lavoro. Ha un quadro delle sue relazioni, dei suoi problemi, soprattutto di quelli che l’hanno indotta a chiedere una terapia. In questo momento egli e Sara lavorano su un punto preciso. Sara ha una caratteristica comportamentale e relazionale che, in seduta, essi chiamano “distacco”, un modo di funzionare che al dottore - come un giorno le ha brillantemente rivelato - ricorda l’azione di quello strumento, indispensabile nelle grandi cucine, detto “abbattitore”. Oggi Sara ha connesso il suo fungere da abbattitore a quanto accadeva in lei quando suo padre e sua madre litigavano, poi èpassata a parlare della nascita del fratello quando aveva 4 anni, e di una malattia della madre quando ne aveva 7. Più avanti, ha fatto un cenno al suo timore nel maneggiare aggeggi elettrici e alla frequente sensazione di calore umidiccio. Ha anche portato un sogno in cui i suoi vicini di casa litigavano furiosamente.
Il quesito che vorremmo porre al dottor Candido èsemplice: sulla base di che cosa il dottore pensa che questi disparati elementi possano essere considerati in qualche modo collegati e, quindi, collocabili nello stesso quadro? perchè crede se ne possano inferire nessi utili a spiegare la tendenza di Sara a funzionare come un abbattitore? e sulla base di che cosa egli puòavere fiducia nel fatto che gli “ALLORA”raccontati da Sara possano spiegare il suo “ADESSO” e che l’ADESSO, detto e interpretato alla luce degli “ALLORA”, possa modificare gli effetti, che da tali ALLORA egli crede siano stati determinati?
Temo che il dottore, più che prodursi in una pronta risposta, si stupirebbe della domanda, che giudicherebbe inutile e capziosa a fronte dei cento anni di successi della clinica. La psicoanalisi ha sempre cercato e trovato quei nessi, consentendo ai pazienti di giungere a profondi insight capaci di promuovere il cambiamento. Ciò ci darebbe il destro di incalzare il dottore con un’altra domanda a proposito della triade interpretazione-insight-cambiamento, che sembra affondare radici, tronco e rami nella vetusta e dimenticata metapsicologia. Il dottore, senza certamente negare il valore della triade tradizionale, si affretterebbe, però, a insaporirla con abbondanti spruzzi di “ri-vissuto e ri-esperito”, con lo spessore degli spazi interattivi di profonda inconscia comunicazione aperti, magari, dalla reverie dell’analista, e con la trasparenza delle costruzioni intersoggettive che riattivano l’“allora”nell’adesso dell’interazione transferale. Eppoi, - potrebbe aggiungere, - c’é l’inconscio, non l’inconscio rimosso, ma l’inconscio della “memoria implicita” e della “esperienza implicita” che costituisce il sottobosco non verbale dei nostri vissuti espliciti e verbalizzati e funge quindi da tessuto connettivo dei nostri meccanismi difensivi come delle intenzioni inconsapevoli che guidano le nostre azioni.
Il fatto èche certamente, prima degli anni ’70, il problema del quadro in cui disporre gli elementi disparati e quello di connettere l’ALLORA con l’ADESSO non si poneva. La teoria classica, infatti, poggiava sull’assunto della “continuitàpsichica”, che, per la discontinuitàdella coscienza, diventava la prova dell’esistenza di processi psichici inconsci. Su tale assunto era costruito l’apparato psichico, il cui primo e generale principio di funzionamento prevedeva che ogni eccitamento attraversasse l’apparato, in direzione sia progressiva che regressiva, lasciasse una traccia indelebile. Questa impostazione implica logicamente una concezione fissa e determinata del significato, su cui il dottor Candido dovrebbe, forse, spendere più di qualche dilucidazione. In questo quadro l’analista poteva tranquillamente presumere non solo di poter situare e connettere gli elementi man mano emergenti, ma disponeva anche di un “manuale” che gli consentiva di stabilire il significato dei nessi, i possibili intrecci e persino la loro posizione gerachica cosìche egli poteva procedere strato dopo strato. Il suo lavoro mostrava, così, una tendenziale somiglianza con il processo di ricostruzione di un puzzle, - per quanto si trattasse di un puzzle assai complicato, - o con uno scavo archeologico, secondo la metafora freudiana, in cui la statua, la colonna o il vaso stavano lì in attesa di essere scoperti ed esistevano a prescindere dal fatto di essere o no scoperti.
Ma oggi? Certo il dottor Candido ha dismesso il manuale dell’apparato. Il guaio è, però, che, con il manuale, è svanita anche la solidità della cornice. La “continuitàpsichica”, infatti, non èun dato osservazionale. E’ un postulato necessario della teoria classica, che, naturalistica e deterministica, doveva assumere che i significati possano e debbano essere considerati prevedibili in funzione di sequenze determinate di cause e di effetti, ciò che implica presupporre desideri, intenzioni e fantasie inconsce per non interrompere la catena causativa deterministica. Con la “continuitàpsichica”, però, viene meno la giustificazione logica di un inconscio che abbia qualche parentela logica e funzionale con l’inconscio freudiano.
Per mettere insieme l’ADESSO e gli ALLORA di Sara, il dottore non puòpiù fare affidamento nésulla continuità psichica nésull’ormai falsificato asserto secondo cui che tutto quanto accade èregistrato nella memoria dell’apparato reale (i dati sembrano suggerire che soltanto l’1% o poco più dell’accadere viene registrato nella MLT!). Non può nemmeno transustanziare l’inconscio freudiano nell’inconscio della memoria implicita e procedurale per poi attribuirgli, sottobanco, funzioni e caratteristiche proprie dell’inconscio dinamico. Per non dire dei fenomeni imbarazzanti che la psicologia scientifica ha scoperto sul funzionamento quantomeno bizzarro della memoria!
E, dunque, che cosa giustifica la sicurezza del dottor Candido e nostra che si possano collocare in uno stesso quadro i disparati elementi comunicati da Sara? che essi possano fornire significativi nessi per spiegare il suo funzionare da “abbattitore”? che il suo ADESSO sia determinato dai riferiti ALLORA e che tutto questo lavoro sulle multiformi memorie del passato possa produrre un cambiamento?
Le credenze del dottor Candido o sono giustificatie da ipotesi suscettibili di verifica o si auto-giustificano o sono assunzioni non giustificate. Il dottor Candido non sembra disporre di giustificazioni basate su ipotesi verificabili, nè il suo metodo può contare su dati che siano effettivamente dei dati, in grado quindi di giustificare le sie ipotesi e le sue tecniche. Difficilmente egli potrà trovare altra giustificazione che non sia l’eredità storica, l’abitudine tramandata della pratica, il senso comune e magari anche il rumore di fondo di un essenzialismo mai morto. Il fatto, però, che, qualunque cosa ne pensi Wallerstein, le teorie cliniche e il metodo sono figli legittimi della metapsicologia freudiana, la quale giustifica i processi inconsci, l’intenzionalità inconscia, la fantasia inconscia, il transfert, le identificazioni, le proiezioni, le regressioni, le dissociazioni oggi tanto di moda e anche la triade interpretazione-insight-cambiamento. Il dubbio, dunque, è che la metapsicologia falsificata e dimenticata nel limbo, continui in incognito a giustificare le concezioni e le pratiche della moderna psicoanalisi che l’ha ha seppellita nell’oblio senza preoccuparsi del fatto di poggiare con i piedi e le scarpe su un pavimento che non ha voluto esplicitamente disconoscere per non doverlo sostituire. E’ la trappola cui facevo cenno, in cui sembra siano incorsi anche gli intersoggettivismi più avanzati. Da questo punto di vista si potrebbe, forse, dire che le moderne teorie, anche relazionali e intersoggettive, hanno fatto come Odisseo quando, accecato Polifemo, restò ostaggio dell’enorme masso, che occludeva l’ingresso della grotta. Odisseo trovò la dritta. Giunto il mattino, con i compagni, si abbarbicò al vello delle pecore immani del ciclope e, confuso nella lana del veicolo animale, sfuggì al tatto del gigante ferito, tornando, impunito alla nave.
Anche la moderna psicoanalisi prigioniera della caverna naturalista, impotente a sollevare il masso della teoria dei processi, disarmata d’ogni strumento, che non fosse la teoria clinico-tecnica, modellata nella metapsicologia, ha abbandonato la caverna, utilizzando le pecore di Polifemo. Spento l’occhio della pulsione alla teoria naturalista, si è aggrappata a un certo numero di concetti atti a veicolare esigenze soggettuali, interattive e persino intersoggettive. A fungere da “pecore di Polifemo” sono stati il transfert, il controtransfert, l’identificazione proiettiva, l’intenzionalità inconscia, la fantasia inconscia, l’enactment. In tal modo, gli analisti, come Odisseo, si sono aggrappati al vello delle pecore del ciclope per abbandonare, non visti, la caverna naturalista, in cui Freud era rimasto prigioniero. Odisseo, però, una volta fuori, lasciò gli ovini e corse alla nave; gli psicoanalisti, anche intersoggettivisti, trovano, invece, comodo restare abbarbicati a quella lana e sembra non intendano liberarsi delle… pecore, che, come è loro costume, tornano ogni sera all’ovile, riportando i fuggitivi ignari alla caverna naturalista cui credono ingenuamente di essere sfuggiti! Sono le trappole delle teorie!
TIRARE LA LINEA III: L’ALLORA, L’ADESSO, IL VINCOLO E LA TEORIA DELL’AZIONE.
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Ebbene, proprio come alla fine degli anni ’70, sembra necessario tirare la linea, per stabilire sul piano epistemologico, metodologico e concettuale le relazioni e le modalitàdi determinazione dell’ADESSO da parte dell’ALLORA.
Il racconto e l’interazione di ogni Sara avvengono nell’ADESSO della seduta e della vita, ma trovano valenza clinica in rapporto agli eventi e alle narrazioni dell’ALLORA. La teoria classica con la sua articolata architettura di congetture riguardanti la genesi, lo sviluppo, la struttura e il funzionamento dell’apparato, forniva:
a. la cornice e lo spazio logico in cui collocare e rendere intelligibili le narrazioni, le “azioni” e, sotto forma di transfert, anche le interazioni di Sara;
b. un set di regole di trasformazione per leggere le differenti modalitàdi determinazione del passato rispetto al presente;
c. una giustificazione del metodo perchéera la stessa architettura di congetture a giustificare la triade interpretazione-insight-cambiamento.
Non possiamo più contare su tale giustificazione perchéla mente èciò che fa il cervello e il cervello non funziona al modo in cui pretendeva l’apparato freudiano. Non si puònemmeno contare sui dati relativi all’efficacia, perchéil “verdetto di Dodo” avverte che le terapie funzionano, ma non per i motivi per cui pretendono di funzionare. Dunque l’efficacia non puògiustificare nessuna delle teorie che governano la pratica.
Al posto della robusta “continuitàpsichica” possiamo disporre soltanto di una più labile “continuitànarrativa” o “biografica”che, però, dal punto di vista psicoanalitico, èanche il luogo dell’auto-fraintendimento e dell’auto-inganno. Possiamo contare anche sulla piùsolida “continuità organismica”, che ci rassicura garantendo la natura essenzialmente storica di ogni organismo vivente, ma èdi scarsa utilitàsul piano operativo perché ben poco puòdirci riguardo al modo in cui l’“ADESSO” di Sara dipende dai suoi ’“ALLORA”. L’oggetto, il compito e lo scopo di una teoria generale è infatti questo: spiegare, tramite una rete di ipotesi suscettibili di controllo, il modo in cui avviene la determinazione dell’ “ADESSO” da parte dell’ “ALLORA.
Questo compito non puòessere demandato néalle neuroscienze, in una riedizione del riduzionismo ottocentesco, néa una pura ermeneutica dei significati (mentalismo) néa una ossessiva classificazione statistica delle conseguenze di ogni possibile evento come il comportamentismo cognitivista ha fatto diventare di moda e come il revival del concetto di trauma rischia di reintrodurre in psicoanalisi. Non alle neuroscienze, il cui oggetto éla spiegazione del comportamento in quanto determinato dalla struttura e funzionamento del substrato neurale. Esse hannno l’onere di spiegare la natura prima e il modo in cui essa, nella deriva evolutiva, ha imparato a supportare la natura seconda, ma non possono spiegare quest’ultima, che si pone come l’oggetto principe del mondo 3 (Popper). Quanto alla nozione di trauma ècerto che un evento puòdeterminare un ADESSO, ma nel senso che puòinfluire sull’organizzazione del sistema impattando con i processi e le regole di relazione e organizzazione di quel sistema, che appunto dovrebbero essere oggetto della teoria. Proprio questo è il compito specifico della psicologia, che studia il comportamento di un soggetto, che emerge dalla deriva evolutiva in una precisa situazione storica e culturale. Più specificamente èil compito della psicologia clinica, che dopo un secolo e piùdi psicoanalisi e di pratica clinica, possiede una massa non trascurabile di conoscenze, inferenze, generalizzazioni e concettualizzazioni, che pertengono, però, a orizzonti teorici discontinui, falsificati (teoria freudiana dell’apparato), pertinenti a territori teorici disparati o mediati da ambiti non coerenti tra loro come accade per i dati delle neuroscienze o per quelli dell’infant research e della tradizione bowlbiana e neo-bowlbiana.
Non so tirare la linea, ma negli anni impiegati a scivere “La mente del corpo” ho esplorato il territorio di una costruenda teoria soggettuale e intersoggettuale dell’azione del soggetto, individuando i punti chiave, che la conformazione del territorio candida a essenziali punti di orientamento per la sua costruzione, e conducendo una prima raccolta dei dati che possono fungere da indicatori del percorso. Da questo lavoro ho tratto la convinzione che, dopo 40 anni di traversata del deserto, la formulazione di una nuova teoria generale sarebbe impresa possibile, se non ci fosse una nutrita serie di ostacoli da superare.
Il primo e piùgrave ostacolo èla convinzione degli analisti che non ci sia necessitàalcuna di tale teoria, che il ventaglio di teorie di cui disponiamo sia ampio, ricco e adeguato. La seconda difficoltà, affine alla prima, èla consolidata convinzione che la seduta sia contemporaneamente il luogo della cura, della ricerca e della prova, che i dati della seduta siano dei veri “dati”e che, dunque, la teoria clinica sia autosufficiente, autofondata e persino empiricamente costruita e validata.
Questi ostacoli di tipo, direi, ideologico sono difficilmente superabili, ma, nel contempo, sembra essersi addolcito quello che fino a tempi assai recenti era lo scoglio più insormontabile. I rapaportiani fallirono nel loro tentativo di riformulazione a causa della nozione di fantasia inconscia, che sembrava indispensabile per la spiegazione dell’intenzionalità inconscia. Gill e Klein, che a quel concetto non sapevano rinunciare, si consegnarono alla Scilla mentalista, mentre Rubinstein, con la sua impostazione neometapsicologista e neurofisiologista, finì nelle braccia della Cariddi riduzionista. Oggi, per quanto non se ne parli, èancora così. Nel panorama della psicoanalisi degli ultimi decenni, infatti, le avanguardie intersoggettive e relazionali hanno raccolto la bandiera dell’alternativa psicologica, sollevata da Klein e Gill. A essi si contrappongono quanti, cercando un sostituto biologico sostenibile per la falsificata biologia freudiana, si raccolgono dietro la bandiera, che fu di Rubinstein, impugnata in modo esplicito dalla neuro-psicoanalisi e da quanti si affidano in modo diretto alle neuroscienze.
Alla radice del problema, c’era proprio l’assenza nell’armamentario concettuale di Freud della nozione di soggetto, che lo costringeva a risolvere il problema della continuità del vissuto in termini psicologici alti e, dunque, in termini di continuità psichica e in termini di desideri, fantasie, intenzioni inconsce. Questa necessità oltre che al mentalismo porta anche a un paradosso logico. Se per spiegare il comportamento di Maria introduco sotto qualche forma un’intenzione inconscia, sto introducendo “intelligenza” per riempire i buchi di non conoscenza a riguardo del processo reale, che genera il comportamento che sto spiegando. Questa intelligenza introdotta nella testa di Maria si rivela una proiezione, dell’intelligenza, che emerge in Maria come effetto dell’azione e del funzionamento della sua totalità, cioèdell’insieme dell’attività del suo sistema organismico-soggettuale. Se, nella costruzione della teoria e nella spiegazione del comportamento di Maria, tale effetto della totalità di Maria è considerato causa di uno specifico comportamento, si èimplicitamente provveduto a miniaturizzare la totalitàdi Maria e a collocare questa piccola Maria omuncolare tra i processi, che dovrebbero determinare proprio l’effetto che mi ripropongo di spiegare. In sintesi, si ètrasformato l’effetto in causa e la totalità – mentalizzata e omuncolarizzata – in un pezzo del processo.
La nozione di soggetto puòfarci scivolare indenni tra mentalismo e riduzionismo consentendo di riconoscere che la contrapposizione, per oltre mezzo secolo considerata insanabile tra biologia (pulsione) e relazione (soggettivitàe intersoggettività), rispecchia, una caratteristica essenziale dell’oggetto stesso di una psicologia clinica. Tale oggetto non puòessere, infatti, se non l’azione umana soggettiva e intersoggettiva, che, assunta nella sua complessità, esige la coniugazione, in un modello unitario, della natura prima e della seconda, della linearità e della circolarità, dei processi e dei significati.
La nozione di soggetto consente l’assunzione di un punto di vista organismico in grado di supportare una teoria dell’azione che, situata nella deriva evolutiva sia per quanto riguarda la selezione dei geni sia per quanto riguarda la selezione dei memi, puòconnettere l’analisi processuale dal basso con l’analisi della narrativa dall’alto. La prova del nove della praticabilitàdi questo approccio èdata dalla possibilità di impostare in modo nuovo il problema dell’intenzionalitàinconscia, superando lo scoglio della fantasia inconscia e il suo insuperabile rimando mentalistico. Non ho il tempo e lo spazio concettuale per descrivere il modo in cui questo ostacolo possa essere superato. Basteràosservare che tutti gli organismi dal paramecio allo scimpanzé, sono intenzionali e lo sono senza bisogno alcuno di formulare intenzioni. Homo appartiene alla classe degli organismi soggettuali e ne condivide le caratteristiche e le funzioni. Egli, grazie alla lingua, sa formulare e costruire simbolicamente intenzioni riflesse, esplicite e comunicabili, exattando, direbbe Gould, l’intenzionalitàpiù ampia dell’organismo. Il fatto peròche egli possa esprimere intenzioni consapevoli non implica che tutte le sue azioni presuppongano un’intenzione. Poggiando su quanto la ricerca neuro-psicologica ci ha consentito di apprendere sul sistema delle emozioni, sul suo ruolo nel processo di valutazione\attribuzione di significato, sulla sua continua attivitàdi scansione dei pattern percettivi in entrata e dei risultati dell’azione in uscita, è possibile pensare a una intenzionalità senza intenzioni. Si puòcioéipotizzare che la costante processazione in sequenze di valutazione-previsione, in ragione di un significato corporeo ed emozionale, costituisca il nostro meccanismo organismico-processuale di guida nella costruzione del mondo e del me nel mondo e la matrice da cui emergono le effettive intenzioni sia quelle dette e formulate in modo consapevole sia quelle non dette, che innervano silenziosamente il comportamento e le azioni. Questo elementare meccanismo è intenzionale nel senso che seleziona e sceglie in rapporto al risultato. Un osservatore esterno potrebbe anche descrivere l’azione conseguente in termini di intenzioni o di fantasie. Per esempio, la percezione di una certa contrazione dei muscoli facciali, che riattiva la memoria di uno stato del corpo sperimentato, può innescare un’aspettativa emozionale negativa e motivare inconsapevolmente un’azione di evitamento. Tutta la sequenza èfacilmente descrivibile con un enunciato del tipo “quando x allora y”, dunque con una teoria o fantasia, che tuttavia sarebbe propriamente effetto, non causa dell’azione del soggetto.
I dati e gli elementi che consentono di riformulare in termini processuali nériduzionisti némentalisti il problema dell’intenzionalitàinconscia permettono di sperare di porre rimedio anche alla perdita del piùsostanziale vantaggio della teoria classica, andato perduto nelle concezioni teoriche correnti. La maggior virtùdella teoria classica consisteva nel fatto che essa disponeva di una rete di concetti (carica, controcarica, fissazione, condensazione, spostamento, rimozione, regressione, isolamento…) sufficientemente bassi, neutri e lontani dal vissuto esperito, che le consentivano di congetturare i processi, in modo relativamente indipendente dai contenuti. Le teorizzazioni cliniche successive, per la caduta del modello pulsionale, hanno dovuto lasciare cadere i concetti processuali, ritrovandosi:
- a non possedere più dei concetti abbastanza bassi da un punto di vista gerarchico e abbastanza neutrali rispetto alla fenomenologia dei vissuti;
- a dover tuttavia mantenere concetti come identificazione, proiezione, regressione, transfert, fantasia inconscia, difesa, che dai concetti processuali traevano, però, la forza e la rilevanza;
- a dover conseguentemente privilegiare i contenuti scambiandoli spesso per processi come avviene in modo trasparente nel caso dell’identificazione proiettiva, nel revival delle spiegazioni traumatiche e, più in generale, nelle visioni teoriche fondate su gerarchie di bisogni o di motivazioni.
Torniamo a Sara. In seduta ciòche si passa èun flusso di narrazioni, interazioni e narrazioni di interazioni, verbalizzate o no. Tale flusso non èoggettivato da un osservatore terzo, neutrale - (fosse anche l’occhio di una telecamera!), - ma èinvece “soggettivizzato”dal flusso dei vissuti dei due attori che lo vivono dal loro “interno”. Conseguentemente ogni narrazione è una costruzione soggettiva nel narrante e nell’osservatore e ogni interazione èuna costruzione intersoggettiva dei due attori. Sia le costruzioni soggettive dei due narranti e osservatori sia le loro costruzioni intersoggettive avvengono nell’ADESSO. Dove sta l’ALLORA in tale adesso e in che modo modo l’ALLORA ha determinato l’ADESSO?
Sembra non possiamo piùaspettarci di trovare un ALLORA conservato immutato e immutabile, come la mummia di Ramses, in qualche angolino della mente o del cervello. Un tale ALLORA non puòessere néraggiunto nériesumato némodificato perché, in quanto fatto, non esiste più e, dunque, come amavano dire i Greci, “non lo possono cambiare neanche gli dei!”. L’ALLORA ènell’ADESSO, nelle conseguenze che determinano questo ADESSO e non un altro e, dunque, esiste e agisce nei vincoli e tramite i vincoli che determinano l’ADESSO. I vincoli fanno sì che Sara e il suo terapista non ripropongano ADESSO un vissuto soggettuale, una configurazione relazionale, dei significati, delle intenzioni, delle immagini, delle emozioni di ALLORA. Essi non costruiscono né soggettivamente né intersoggettivamente nessun ALLORA. Essi vivono ADESSO la configurazione relazionale, il significato, le intenzioni, le immagini, le emozioni di ADESSO, perché i vincoli costruiti nei rispettivi ALLORA consentono di vivere questo ADESSO e non un altro. In questo modo complesso l’ALLORA determina l’ADESSO. In modo altrettanto complesso l’ADESSO può anche modificare l’ALLORA, non entitativamente e direttamente, ma attraverso NUOVI ADESSO che possono relativizzare o sminuire la forza dei vincoli creati dall’ALLORA mediante nuovi vincoli creati dall’ADESSO.
Se l’ALLORA esiste nei vincoli che determinano l’ADESSO, si potrebbe formulare e formalizzare un concetto di vincolo a indicare un nesso stabile tra un elemento somatico-valoriale e un elemento simbolico-rappresentazionale. Tale nesso limita il ventaglio delle azioni possibili del soggetto o, persino, prescrive o inibisce una specifica azione.
Per “elemento somatico-valoriale” intendo un qualunque evento corporeo che, per il suo valore edonico positivo o negativo, può fungere da marcatura qualificante e, dunque, si tratta essenzialmente delle sensazioni della diade piacere-dolore e delle cosidette emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disgusto,) da cui con lo sviluppo si specificheranno quelle secondarie (allegria, ansia, vergogna, gelosia, invidia, speranza, rimorso\senso di colpa, rassegnazione, perdono, offesa, delusione, disprezzo) sino ai sentimenti.
Per “elemento simbolico-rappresentazionale” intendo, invece, un elemento narrazionale che ha lasciato una memoria consapevole o inconsapevole e puòessere richiamata da uno stimolo. Lo stimolo può essere percettivo, (un oggetto, l’immagine (grafica, fotografica...) di un oggetto, un odore, un colore, il timbro di una voce, una parola o una frase detta, udita o letta, il tono di una voce.....), simbolico (il simbolo percepito di qualcosa che èstato antecedentemente percepito), onirico (un sogno, il ricordo di un sogno, il racconto di un sogno), pensato, immaginato. Puòessere semplice e diretto come in tutti i casi precedenti, o complesso e articolato (una scena, una situazione, un ambiente, un compito, un dovere, un ordine, un’aspettativa, un’attesa...). Puòessere qualcosa che sta avvenendo qui e ora, qualcosa che avverrà, qualcosa che forse accadrào che sicuramente accadrào che temo possa accadere. In ogni caso si tratta di un evento che interviene nel flusso dei vissuti e che, direttamente o indirettamente, ha o puòtrovare un antecedente nel vissuto pregresso.
Un vincolo sarebbe in sintesi uno schema fisso anticipatorio di emozione-azione, che in virtùdella marcatura emozionale, limita il ventaglio delle azioni possibili e anzi, spesso, prescrive una risposta o la inibisce, ponendosi anche come un attrattore sul piano logico, analogico o metaforico.
Un costrutto come questo si propone come una forma neutra, indipendente dal contenuto, ma capace tuttavia di esprimere qualunque contenuto, collocabile ai vari livelli della stratificazione del vissuto in senso sia temporale che funzionale e capace dunque di funzionare come mattone nelle costruzione di più complesse reti di vincoli. Da questo punto di vista il concetto di vincolo sembra in grado di unificare i territori che nella teoria tradizionale erano suddivisi tra i concetti di transfert, difesa e resistenza. Mi piace sottolineare che questo concetto, seppure in termini diversi, insiste sullo stesso tema su cui si affaticò Rapaport per oltre venti anni con il suo lavoro e con il continuo richiamo alla necessità di definire formazione, nutrimento e cambiamento delle strutture.
Prima di finire devo assolvere un compito. Il dott. Candido, raccomandandomi di salutarvi, mi ha pregato di dirvi di non badare troppo ai peli nell’uovo che il dottor Scano ama seminare e di rallegrarvi, invece, del fatto di possedere la migliore delle teorie possibili, che, dice, è cosa di grande aiuto nel lavoro clinico. Sara è una paziente e non mi ha consegnato messaggi, so però che, se avesse potuto, mi avrebbe chiesto di dirvi che il dottor Candido è certamente una splendida persona “voi però…ragazzi …bisogna vi diate da fare!”.
L’ALLORA E L’ADESSO: Continuità psichica e continuità narrativa
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Là, innanzi a noi, c’è un paziente. Pensiamo a Sara o a Giuseppe. Già dopo i primi colloqui, giungiamo a conoscere i fatti più importanti della sua biografia, i personaggi della sua famiglia, le scelte di vita, gli studi, il lavoro. Ci facciamo un quadro delle sue relazioni, dei problemi - soprattutto di quelli che lo hanno indotto a chiedere una terapia - eventualmente dei suoi sintomi. Oltre a questi dati, avremo anche una certa percezione del suo mondo interno, del suo paesaggio emozionale, delle sue modalità e difficoltà affettive e, oltre a queste valutazioni inferite dal suo raccontarsi, avremo, in maniera forse assai meno consapevole, anche una serie di impressioni derivate dal suo modo di proporsi, dai suoi atteggiamenti, dal modo di esprimersi, dalla sua immagine complessiva, dalla sua espressività mimica, dal suo concreto proporsi innanzi a noi. Presumibilmente avremo anche la disponibilità di un’altra serie di dati di diversa natura e cioè l’insieme delle risposte, consapevoli e non, suscitate nel nostro vissuto dai racconti e dalle nostre percezioni del suo raccontarsi complessivo. Potremo considerare questo primo mucchietto di percezioni e conoscenze come una sorta di “fotografia”, che, per definizione, sappiamo inadeguata, provvisoria, sotto molti aspetti anche ingannevole e comunque incompleta. Man mano che le sedute si susseguono molti aspetti della “fotografia” si precisano. Emergono eventi e personaggi nuovi che intervengono nella narrazione. Lentamente si definiscono meglio molti aspetti, ora l’uno ora l’altro, del suo profilo complessivo. Una relazione terapeutica, però, non ha uno scopo primariamente conoscitivo. Non lavoriamo per produrre una fotografia sempre più accurata e precisa, anche se naturalmente avviene anche questo. La sequenza dei racconti va a salti e a strappi, guidata dal concreto accadere (fatti, eventi, problemi, sogni, auto-percezioni, auto-valutazioni, stati d’animo…) e dal susseguirsi dei vissuti sia esterni che interni alla terapia. A margine di questo fluire il paziente porterà nuovi racconti o magari racconti differenti di eventi già raccontati, sogni, associazioni, ricordi, fantasie.
Ora il problema è: abbiamo un telaio o una cornice in cui disporre questi elementi più o meno coerenti e che tipo di nessi (fattuali? semantici? associativi? causali?) possiamo stabilire tra i vari elementi disposti nel quadro? Cosa ci autorizza, per esempio, a pensare che un certo evento accaduto, supponiamo, quando il paziente aveva due anni, possa avere qualche significativa relazione causativa con un tratto caratteriale o comportamentale del paziente o con un sintomo e che un determinato sogno, che interviene in una certa seduta, possa essere connesso a quell’evento e a quel tratto? Ancora meglio: supponiamo che in un certo frangente della terapia stiamo lavorando su un punto preciso, per esempio, su una caratteristica comportamentale e relazionale del paziente che, nel linguaggio condiviso con lui, chiamiamo “distacco” oppure “raffreddamento emozionale”, una tendenza che ricorda l’azione di quello strumento, divenuto indispensabile nelle grandi cucine, che chiamano “abbattitore”. Cosa ci autorizza a ritenere che un certo evento di quando egli aveva due anni, la nascita di un fratello quando ne aveva quattro, una malattia della madre quando ne aveva sette, un’osservazione espressa recentemente a riguardo del suo timore nel maneggiare aggeggi che hanno a che fare con l’elettricità, la frequente sensazione di calore e di sudore umidiccio, il sogno che ha appena raccontato … possano essere considerati elementi in qualche modo collegati e collocabili, quindi, nello stesso quadro in modo tale che si possano inferire nessi che ci spiegano il suo distacco e la sua tendenza a funzionare come un abbattitore?
Per Freud e, in generale, per la psicoanalisi sino agli anni ’70 il problema non si poneva. La teoria classica, infatti, poggiava sull’assunto della “continuità psichica”, che, anzi, a fronte dell’evidenza osservazionale della discontinuità della coscienza, diventava la vera prova del nove che giustificava l’asserto dell’esistenza di processi psichici inconsci (1). Su tale assunto era costruito l’apparato psichico, il cui primo e generale principio di funzionamento prevedeva che ogni eccitamento attraversasse l’apparato in direzione sia progressiva che regressiva - (da P a M e da M a P, nello schema del VII Cap.) - lasciasse una traccia indelebile e, dunque, almeno in teoria, recuparabile. Questa impostazione implica logicamente anche una concezione fissa e determinata del significato, perché come sottolineava Rapaport “il significato di un qualunque elemento del vissuto dovrà, infatti, situarsi e definirsi sulla base della continuità psichica, perché, quando ci chiediamo a proposito di un sogno o di un sintomo: “che significato ha?”altro non intendiamo dire se non: “in che modo questo sogno si adatta alla continuitàpsichica dell’individuo che lo ha sognato?”.
In questo quadro teorico l’analista poteva tranquillamente presumere non solo di avere una cornice in cui situare gli elementi man mano emergenti, ma, in virtù delle leggi di funzionamento dell’apparato, aveva anche un manuale che gli consentiva di stabilire la tipologia dei nessi, le modalità del loro funzionamento e persino una catena gerarchica di funzionamenti (meccanismi di difesa e sviluppo della libido), che gli consentiva di procedere strato dopo strato. In un certo senso non solo aveva la sicurezza di poter collocare gli elementi entro la stessa cornice, ma il suo lavoro mostrava una tendenziale somiglianza con il processo di ricostruzione di un puzzle, - per quanto si trattasse di un puzzle assai complicato, - o con uno scavo archeologico, secondo la metafora freudiana, in cui la statua, la colonna o il vaso stavano lì in attesa di essere scoperti ed esistevano a prescindere dal fatto di essere o no scoperti(2).
Oggi le cose sono assai cambiate. Abbiamo perso il “manuale” d’uso dell’apparato e del suo funzionamento ed è svanita anche la solidità della cornice della “continuità psichica”, che non è un dato osservazionale, ma un postulato esigito dalla struttura della teoria classica. La necessità di tale postulato, infatti, non è né assoluta né necessaria per ogni teoria psicologica. Lo è soltanto per una teoria, che, come quella freudiana, intenda costruirsi come naturalistica e deterministica e in cui, dunque, i significati possano essere considerati prevedibili in funzione di sequenze determinate di cause e di effetti, ciò che, in assenza di una determinazione cosciente, a causa della frammentarietà e lacunosità della coscienza, porta necessariamente a presupporre processi psichici inconsci per non interrompere la catena causativa deterministica.
E dunque che cosa ci può consentire di collocare entro la stessa cornice gli eventi della biografia di Sara o di Giuseppe, un evento successo una settimana fa, quel sogno vecchio di tre mesi e quello che mi ha appena raccontato? E sopratutto che cosa può garantirci che il “significato”di un evento di “allora”sia stato quello che noi gli attribuiamo “adesso” e che si possa stabilire un nesso tra quel “significato”e quello che attribuiamo a un tratto, a un comportamento o a un vissuto attuale? Se né la continuità psichica né l’ormai falsificato asserto secondo cui tutto quanto accade è registrato nella memoria dell’apparato reale (i dati sembrano suggerire che soltanto l’1% o poco più dell’esperito viene registrato nella MLT!) possono soccorrere la nostra fiducia nel poter considerare tutti i dati e tutte le comunicazioni di Sara o di Giuseppe come appartenenti allo stesso registro, a che cosa potremo rivolgerci?
Se corriamo al cassetto, in cui conserviamo le nostre vecchie foto, sappiamo che quel bimbetto di 6 mesi sorridente chissà perché, quell’altro un pò cresciutello di due con quello strano boccolo in cima alla testa, quel compunto ragazzino con la fascia da prima comunione e i primi pantaloni lunghi, quel ragazzotto sedicenne che sembra mimare un attore hollywoodiano, quell’altro più maturo, ma con l’occhio acceso dalla baldoria alcoolica del pranzo nuziale …testimoniano e fissano tutte frazioni temporali datate di uno stesso continuo Io-me. Sebbene non di tutte queste immagini conserviamo anche il “sonoro” del vissuto, che ci consenta di sentirci “dentro” al film, di cui quelle foto sono un fotogramma, siamo convinti che “quello ero\sono Io”. Allo stesso modo assumiamo che i fatti e i frammenti ricordati della storia di Sara si collochino in una continuità e appartengano alla stessa linea continua dell’Io-me di Sara. Questo, però, è un fatto più che altro di senso comune, la cui verità, per un verso certo innegabile, si dimostra tuttavia superficiale e assai falsificabile, come dimostrano cento e più anni di psicoanalisi. Del resto, per dare sostanza alla fragilità di questa dubbia convinzione è sufficiente correre a un altro cassetto, quello in cui conserviamo gli ingialliti quaderni dei nostri diari giovanili e le agende degli anni più maturi. Se apro una pagina a caso del mio diario del 1967 e comincio a scorrerla, posso avere la poco confortante impressione di trovare che leggere e capire un mio scritto di quando avevo 21 anni non è poi molto diverso dal leggere e capire una pagina del “Ritratto dell’artista da giovane” (Joyce) e che, dunque, quell’Io-me non è poi così…ovviamente …Io-me!
La letteratura non sembra dare molto peso a questo interrogativo, anzi, paradossalmente gli dava più peso prima degli anni ’60\70 quando ancora vigevano la continuità psichica e la completezza del database dell’apparato, che non dopo, quando il problema si è ufficialmente aperto. I motivi? La psicoanalisi è essenzialmente una pratica clinica e i clinici hanno poco tempo e poco interesse per l’indagine storico-critica e teorico-critica e, del resto, il soggetto che sta innanzi a me sulla poltrona o sdraiato sul lettino, è seduto o sdraiato sul sacco della sua storia e, anzi, “egli è la sua storia” sin dai primi casi clinici di Freud: egli é tutta la sua storia anche quella negata o rimossa. L’eredità storica (anche quella che mutua dalla continuità psichica), l’abitudine tramandata della pratica, il senso comune e magari anche il rumore di fondo di un essenzialismo mai morto, perché scritto profondamente nel sotto-codice della cultura occidentale, possono facilmente fornire la nebbia che può gentilmente esorcizzare i contorni del problema. Eppoi…c’è comunque …l’inconscio, che, ai molti servigi resi all’analisi clinica da fine ‘800 ad oggi, sembra aggiungere anche quella di poter fungere da terreno portante di una supposta, preconcetta, non detta, non definita, generica “continuità psichica”, sopratutto da quando il terreno dell’“inconscio” ha cominciato a meticciarsi con quello dell’“implicito”. Sembra infatti di cogliere sempre più frequentemente la convinzione che la distinzione tra “memoria implicita\esplicita”, possa facilmente con-fondersi con quella tra “esperienza implicita\esplicita” e questa sovrapporsi alla contrapposizione “verbale-non verbale”prestandosi a porsi come una formulazione post-energetica e “moderna” della processualità primaria e secondaria, (come in Loewald) in cui esplicito e verbale si sovrappongono a “conscio” e implicito e non verbale si sovrappongono a “inconscio” (o a almeno a “non-conscio” (3).
Operazioni di meticciato trasformista come questa non sono nuove. La psicoanalisi, infatti, nel rincorrersi delle concezioni e dei paradigmi ha sempre preferito ridefinire i suoi concetti, mantenendo fissa una forma di teoria, che, con la sua apparente invarianza, si presta amabilmente a garantire una immagine di coerente sviluppo e di continuità della disciplina (4).
In cerca di chiarezza e anche di semplicità torniamo al paziente che abbiamo supposto seduto o sdraiato innanzi a noi: il suo raccontare avviene nell’ADESSO, ma si riferisce per lo più e, sotto molti aspetti inesorabilmente, a un ALLORA prossimo o remoto. Noi, però, per collocare gli elementi del racconto e stabilire nessi tra i dati delle sue narrazioni e tra l’ADESSO e l’ALLORA, non possiamo contare sulla “continuità psichica” o sulla registrazione indelebile delle sue memorie e nemmeno sul suo generico “inconscio”. La cornice e il telaio di cui possiamo disporre è più labile perché costituita essenzialmente dalla semplice “continuità narrativa” o “biografica” che, però, è anche il luogo dell’auto-fraintendimento e dell’auto-inganno dal punto di vista della psicoanalisi. Sottostante alla continuità biografica c’è una più solida e obiettiva “continuità organismica”, che ci rassicura ancorandoci alla più generale legge della biologia secondo cui il biologico è essenzialmente storico, legge che ci induce a ritenere comunque, che, nella storia di Sara o di Giuseppe, l’ “ADESSO” dipende comunque dall’ “ALLORA”. Più solida ma assai poco praticabile in modo operativo perché il modo in cui si concretizza e realizza la dipendenza dell’ADESSO dall’ALLORA ci risulta oscuro e anzi il rapporto tra l’ALLORA e l’ADESSO è proprio il punto focale della teoria di cui avremmo bisogno, ma che sfortunatamento manca alla nostra cassetta degli attrezzi.
In termini molto generali, possiamo certamente stabilire che:
1. oggetto della teoria-teoria sono le leggi che regolano la determinazione dell’“adesso” da parte dell’“allora” in ragione delle regole di funzionamento del sistema orgaanismico-soggettuale. Un evento (traumatico o no), infatti può “organizzare” un comportamento nel senso che, detto alla grossa, può avere come esito un’inibizione o prescrizione nel comportamento del soggetto o può attivare risposte, che, a loro volta, possono delimitare un ventaglio di comportamenti o possono anche coattivamente prescriverne uno solo, ma ciò può dirsi appunto solo alla grossa. Una teoria dovrebbe formulare ipotesi operative sul “come” ciò avvenga. Se si volesse essere precisi, si dovrebbe dire che un evento, in realtà, non può “organizzare” un sistema; può influire sull’organizzazione del sistema impattando con i processi e le regole di relazione e organizzazione di quel sistema, che appunto dovrebbero essere oggetto della teoria.
2. Oggetto della teoria clinica sono, invece, le generalizzazioni di massima che l’osservazione della casistica consente di fare a riguardo delle classi di conseguenze che l’“allora” determina nella conformazione dell’“adesso” del sistema, sulla base delle regole di funzionamento della classe o sottoclasse dei sistemi complessivi in esame.
3. Oggetto del metodo è, infine, la ricerca delle procedure guidate da 2 e spiegate da 1 per modificare le conseguenze dell’“allora” sull’“adesso”.
Dopo un secolo e più di psicoanalisi e di psicoterapia, sappiamo molte cose su ognuno di questi tre punti, ma si tratta di conoscenze, inferenze, generalizzazioni e concettualizzazioni pertinenti a orizzonti teorici o falsificati (teoria freudiana dell’apparato), o parziali o discontinui o persino pertinenti a territori teorici disparati o mediati direttamente da ambiti non coerenti tra loro come accade per i dati delle neuroscienze o per quelli dell’infant research e della tradizione bowlbiana e neo-bowlbiana.
Con questo seppur scarno orientamento torniamo al paziente che abbiamo di fronte. In seduta, tra me e lui o lei, ciò che si passa è un flusso di narrazioni, che sono anche interazioni e narrazioni di interazioni, verbalizzate o no. Tale flusso, punteggiato dalle cesure delle sedute e da altre cesure, meno appariscenti, all’interno della seduta, non è oggettivato da un osservatore terzo, neutrale (quale potrebbe essere anche l’occhio di una telecamera), ma è invece “soggettivizzato” dal flusso dei vissuti dei due attori che lo vivono dal loro “interno”. Conseguentemente ogni narrazione è una costruzione soggettiva nel narrante e nell’ osservatore e contemporaneamente ogni interazione è una costruzione intersoggettiva dei due attori, infatti nell’analisi del flusso possiamo assumere, accanto al punto di vista soggettuale, anche un punto di vista intersoggettuale.
Sia partendo dal primo che dal secondo punto di vista, non dobbiamo aspettarci di cercare e trovare un ALLORA conservato immutato e immutabile in qualche angolino della mente o del cervello. Un tale allora non può essere né raggiunto né riesumato né modificato perché, come amavano dire i Greci, “i fatti non li possono cambiare neanche gli dei!”. L’ALLORA non è in un sacrario nascosto: l’ALLORA è nell’ADESSO attraverso le sue conseguenze che agiscono nell’ADESSO e, concretamente, è nei vincoli che l’ALLORA ha generato e che determinano l’ADESSO. I vincoli fanno sì che Sara non riproponga adesso un vissuto soggettuale, una configurazione relazionale, dei significati, delle intenzioni, delle immagini, delle emozioni di ALLORA e non costruisce intersoggettivamente con il terapista nessun ALLORA, ma vive ADESSO la configurazione relazionale, il significato, le intenzioni, le immagini, le emozioni di ADESSO, perché i suoi vincoli costruiti nei suoi ALLORA consentono di vivere questo ADESSO e non un altro. E’ in questo modo complesso che l’ALLORA determina l’ADESSO. In modo altrettanto complesso l’ADESSO può anche modificare l’ALLORA, non entitativamente e direttamente, ma attraverso NUOVI ADESSO che possono relativizzare o sminuire la forza dei vincoli creati dall’ALLORA mediante nuovi vincoli creati dall’ADESSO.
Per poter guardare correttamente a questa modalità complessa di determinazione dell’ADESSO da parte dell’ALLORA possiamo pensare a ciascuno dei due attori come a una totalità soggettuale, la cui azione complessiva è governata e modulata da una serie ordinata di filtri. Nel caso del terapista (partendo dall’alto) i filtri sono teorici, teorico-clinici, tecnici, personali (il più noto è quello che si chiamava “equazione personale” per la cui esplicitazione e autoconsapevolezza si richiede appunto l’analisi didattica) più in fondo poi gli analisti tendono a collocare, per abitudine secolare, quello cui fanno riferimento come l’“inconscio”. Se osserviamo il terapista, dando priorità al suo Io osservante, la pila dei filtri può essere elencata nell’ordine che è stato detto, se guardiamo a lui come totalità soggettuale interagente dobbiamo rovesciare la pila e partire dal basso: inconscio, equazione personale, tecnica, teoria clinica, teoria-teoria.
Guardiamo adesso a ciò che gli analisti chiamano appunto inconscio. Questo tradizionale “inconscio”, (che era concepito come una matrice di desideri, difese, fantasie variamente combinate per spiegare l’azione o la non azione di Sara o di Giuseppe e comunque i vissuti interni e privati), può essere operazionalmente inteso come una complessa rete di vincoli, che in vario modo determinano (o influiscono su) l’azione dei filtri soprastanti, per esempio attrraverso la percezione, la memoria, la selezione, l’attribuzione di importanza a questo o a quello elemento...
Un’immagine concreta dell’azione dei vincoli potremmo ricavarla grazie a un’analogia con un aggeggio ben conosciuto. La rete organizzata dei vincoli potrebbe funzionare, infatti, come un navigatore satellitare, come un ton-ton, che sulla base delle informazioni contenute nel suo data-base ti dice in ogni occorrenza se devi andare dritto, a destra o a sinistra o quale delle uscite devi imboccare a una rotonda. Il database del ton-ton è del tutto esplicito, scritto in linguaggio digitale nella pancia dell’aggeggio e può essere modificato man mano che cambia il territorio, per esempio quando venga introdotto un senso vietato o aperta una nuova strada. La rete dei vincoli del terapista di Sara o di Giuseppe, invece, non ha un database né conosciuto né conoscibile e questa è la differenza fondamentale tra la concezione che sto cercando di descrivere e la concezione tradizionale più o meno riformata, che continua a riferirsi all’”inconscio”. Il suo database è la risultanza del flusso degli eventi e dei vissuti che, man mano che accadevano nel tempo, fissavano i nessi tra percezione, valutazione emozionale, azione e\o inbizione, attesa, avvicinamento, fuga. La parte più superficiale del database può essere esplicitata e conosciuta ed è appunto l’equazione personale - (anche se per nessi recenti e particolari può essere del tutto conosciuto l’evento responsabile della fissazione del nesso, per esempio una indigestione può costituire il dato che mi impone di evitare un alimento!), - ma per il resto la rete dei vincoli funziona in modo automatico e del tutto inconsapevole per l’io osservante, che, nella situazione x, si trova a scegliere di “andare a destra” senza nemmeno rendersi conto che sta andando a destra e che il suo ton-ton gli ha imposto di andare a destra: l’alternativa, infatti, può semplicemente non solo non essere percepita, ma persino proprio “non esistere”.
L’imprinting “traumatico” della psicoanalisi fa sì che la più parte degli analisti ritenga che le fissazioni vincolanti avvengano e corrispondano punto a punto. E’ un problema empirico quello di stabilire se è possibile che un singolo evento “traumatico” possa generare un vincolo. In generale, però, il vincolo si forma essenzialmente per ripetizione (proprio perché pertiene alla memoria procedurale), ma la sua caratteristica più importante, dal punto di vista psicologico, è il suo funzionare come attrattore cioè il suo assimilare allo stimolo-grilletto tutti gli stimoli che hanno attinenza (realstica, simbolica, analogica o metaforica) con tale stimolo. Per un paziente che si presenta alla studio di un terapista, a parte casi particolari che si possono naturalmente verificare, ciò che sembra importante non è il singolo vincolo, ma il risultato del sistema complessivo delle reti di vincoli. Se facciamo riferimento al “distacco” del paziente, che funziona come un “abbattitore”, è più semplice pensare che un tale tratto comportamentale ed emozionale sia una caratteristica globale (in senso comportamentale e direi, ormai, caratteriale), che deriva non da singole svolte imposte dal ton-ton, ma è piuttosto il risultato complessivo di tante tante svolte, a tanti tanti livelli e a tanti tanti differenti incroci.
Tutto questo vale naturalmente sia per il terapista che per il suo paziente, anche se i due, sotto molti aspetti, si trovano su posizioni differenti per quanto attiene all’azione dei filtri soprastanti teorici, tecnici, e personali ecc. In ogni caso si trovano su posizioni del tutto altre rispetto ai corrispettivi sistemi di vincoli costruiti da ciascuno di essi nella loro deriva storica. Se, dunque si considerano i due attori da questo punto di vista, avremo che le loro interazioni saranno in qualche modo “controllate” dalle due corrispettive reti di vincoli e che il fluire delle loro interazioni si disegnerà secondo una trama che ognuno di essi leggerà, sia dal punto di vista dell’Io osservante che da quello della totalità narrante (me-narrante), secondo il profilo del proprio canovaccio.
Sin qui abbiamo considerato nell’interazione complessa tra i due soggetti, l’azione di ogni singolo soggetto come un processo intra-soggettuale; la loro interazione però è analizzabile anche come un processo inter-soggettuale. Da questo secondo punto di vista, ogni interazione intersoggettiva può essere denotata come una “costruzione intersoggettiva”, il cui risultato, in termini di significato, di intenzionalità e di effetto, non è riducibile al significato e all’effetto intenzionale dei due processi intra-soggettivi. Questa analizzabilità in termini di “costruzione intersoggettiva”costituisce la vera sostanza di una concezione intersoggettuale, ma l’inferita costruzione intersoggettiva, esattamente come già detto per l’azione soggettuale, non costruisce un ALLORA ma soltanto un ADESSO. Tale adesso ha ceramente più di un rapporto con l’ALLORA dei due attori, ma in ognuno di essi, nella deriva della propria personale storia e nel contesto della personale narrazione di quanto sta accadendo ADESSO. L’effettiva “costruzione intersoggettiva” (sia considerata in generale sia considerata invece nei singoli episodi) sarà sempre “quella che sta effettivamente accadendo”in forza dei rispettivi vincoli e non è determinata dalla intenzionalità consapevole dei due attori, anche se ciascuno di essi si sforza di modellare questa trama in modo consapevole e lo fa essenzialmente attraverso le narrazioni dell’io osservante, che si racconta e racconta ciò che accade.
NOTE
[1]La discontinuità della coscienza è un dato osservazionale, mentre la continuità psichica non è un dato, ma un postulato, che, fornendo la staffa necessaria all’affermazione dell’esistenza di processi psichici inconsci, funge da leva di Archimede dell’intera costruzione teorica. È, infatti, la continuità psichica a rendere logicamente necessaria l’esistenza di processi psichici inconsci. Sarà Rapaport, nell’ambito della sua riflessione metodologica, a evidenziare questa implicazione, affermando senza mezzi termini che l’esistenza di processi psichici inconsci si fonda sul postulato della continuità psichica e che questa, a sua volta, deriva logicamente dalla scelta di costruire una scienza deterministica dei processi psicologici: “Se si presuppone che nella vita psichica tutto sia determinato niente sia accidentale, allora si è semplicemente detto che si vuole costruire una scienza, cioè una scienza nomotetica e niente di più. La forma assunta dal determinismo costituisce uno specifico postulato. Qui assume la forma della continuità psicologica, cioè ci sono certe leggi se si conosce la funzione psicologica come un livello emergente dello sviluppo. Se c’è un nuovo insieme di leggi emergenti, la psicoanalisi dice che vi sono un determinismo e una continuità perfetti. In effetti la continuità psicologica è la forma che un perfetto determinismo assume nel materiale psicologico se studiato mediante il metodo clinico” (Rapaport, 1944-1948)
[2] Freud mancava della nozione moderna di soggetto e di un punto di vista organismico in grado di garantire dal basso l’unità bio-fisio-psicologica del soggetto (Scano, 2008a, 2010). Questa carenza lo obbligava, da un lato, a trovare incongrua e inaccettabile l’idea di una serie interminabile di stati di coscienza sconosciuti a noi stessi e gli uni rispetto agli altri, – idea che, invece, è centrale nelle moderne teoria della coscienza, – e, da un altro lato, lo metteva nella necessità di garantire l’unità dell’organismo con il ricorso alla continuità psichica e all’unità sequenziale dei contenuti psicologici. Ciò gli consentiva certo di superare la discontinuità della coscienza e di contare su una catena causativa continua adeguata all’impianto deterministico della teoria fisicalista, ma al prezzo di dover garantire in termini psicologici, e dunque dall’alto, la necessaria unità dell’organismo. Questa soluzione finisce per delegare allo psicologico, e dunque a una parte, una funzione che logicamente dovrebbe essere attribuita alla totalità, ma soprattutto scava un baratro epistemologico alla radice stessa della costruzione teorica. Essa attribuisce, infatti, ai processi psichici inconsci la stessa struttura formale dei processi consci, facendone l’analogo dei desideri, delle fantasie e dei pensieri consapevoli, ponendo in tal modo il problema della natura dello psicologico e della sua relazione con il non psicologico e lasciando lo spazio a un sotterraneo cartesianesimo di ritorno.
[3] La nozione ricorrente di “inconscio implicito”, che consegue da queste equiparazioni sembra assai equivoca. Non per il suo significato proprio, ma per l’uso “implicito” che ne fa, frequentemente e forse involontariamente, chi lo usa. Certo, apparentemente, l’espressione non fa che spendere nel discorso analitico e magari nel contesto di una revisione dell’inconscio freudiano (ciò è più chiaro nella nozione parallela di “inconscio non rimosso”) le risultanze relative alla memoria dichiarativa e procedurale, alla embodied cognition, alla narrativa emozionale ecc. Il fatto è però che l’unica cosa in comune tra quei dati e generalizzazioni di dati e il concetto tradizionale di inconscio è la caratteristica descrittiva e fenomenologica della non consapevolezza, cioè quella che Freud indicava come inconscio descrittivo. Una caratteristica, dunque, del tutto estrinseca, perchè la “qualità” inconscia di questi processi o di questi vissuti (necessariamente inferiti) ha una parentela assai impalpabile con l’inconscio freudiano
[4]A ben guardare, tuttavia, tale immagine appare come una sorta di vestito cucito in un tessuto di termini e concetti, che, disancorato ormai da una teoria definita, ha, man mano, sotto la spinta di un invincibile trasformismo, progressivamente cambiato i suoi significati sino a costituirsi come una sorta di lingua rituale, che nessuno più comprende e a cui può essere conferito qualsivoglia significato. “Intrapsichico” , “psiche”, “rappresentazione”, “inconscio”, “Io”, “rimozione”, “transfert”, “identificazione”, “difesa”, “oggetto”... diventano così delle parole-funzione, il cui valore non è più codificato e che ognuno può utilizzarle a piacere. Questa rottura del contratto semantico finisce per rendere irrilevante gran parte della letteratura, che assomiglia sempre di più a una sorta di mondo di Alice in cui ognuno può sentirsi padrone delle parole, ma in cui, purtroppo sembra che le parole non abbiano più un padrone.
LA FACCIA NASCOSTA DELLA LUNA
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- Scritto da Gian Paolo Scano
Scorrendo la letteratura psicoanalitica ci s’inbatte frequentemente in un mucchietto di concetti che, pur eterogenei tra loro e riferiti ad ambiti teorici e a periodi storici differenti, mostrano, tuttavia, un'indefinita\indefinibile parentela. Una breve lista non esaustiva potrebbe elencare: “comunicazione inconscia”, “percezione inconscia”, “capacità (dell’analista) di leggere l’inconscio”, “apparato per pensare i pensieri”, “esperienza emozionale correttiva”, “nuova esperienza emozionale”, “empatia”, “identificazione proiettiva”, “sintonizzazione emotiva”, “co-costruzione della realtà”, "costruzione intersoggettiva", “enactment”…
Disparati ed eterogenei si somigliano in un punto: allusivi, sfuggenti, indefiniti e per nulla operativi, evocano profondi processi misteriosi. A dispetto della loro vaghezza nascono dalla pratica clinica, da cui traggono indiscussa fortuna. E’ ai clinici, infatti, che essi appaiono profondi e concreti, capaci di esprimere un livello essenziale dell’esperienza, che sfugge allo sguardo freddo delle teorie. Si potrebbe dire, forse, che ai loro occhi essi rivelino una “faccia nascosta della luna”, una faccia nascosta della psicoterapia, inesprimibile o inespressa delle teorie.
Questi concetti condividono, però, anche una più concreta caratteristica: si riferiscono tutti ad un qualche tipo di transazione, scambio o interazione tra soggetti anche se, spesso, in modo indefinibile e\o indefinito o persino contemporaneamente affermato e negato come nel caso dell’ identificazione proiettiva.
Una facile congettura è che tali formulazioni allusive diano voce a uno spazio poco accessibile alle teorie correnti proprio a causa di questo rinvio alla transazione e allo scambio. Nata con un profondo imprinting naturalistico, la psicoanalisi tende, infatti, a spiegare il vissuto e l’azione tramite i meccanismi interni di un oggetto osservato, sia quando si pone come teoria dell’apparato sia quando si pone come teoria del mondo interno. Da questo punto di vista, le formulazioni allusive colmerebbero una lacuna del punto di vista, incapace di cogliere la faccia nascosta della luna, dando voce alla necessità di chiamare in causa agenti o fattori sconosciuti alle teorie tradizionali.
Ci sono altri due ambiti, di cui uno del tutto estraneo e, il secondo, tradizionalmente in una posizione spuria rispetto alla psicoanalisi, che sembrano poter fare riferimento allo stesso ambito inafferrabile di fattori. Si tratta del placebo e della suggestione.
Il primo è stato una vera maledizione per la ricerca in psicoterapia in quanto è impossibile identificare un placebo per la psicoterapia, ma sta diventando una croce anche per quella neuropsicofarmacologica. Qualche tempo fa Marco Casonato notava che “…il placebo farmacologico in psichiatria non riesce ad essere neutro neppure negli studi effettuati in doppio cieco” e, soprattutto che “…l’effetto placebo risulta imbarazzante per la sua efficacia paragonata a quella delle molecole con cui viene confrontato. Nel caso della depressione l’effetto placebo fornisce risposte un poco al di sopra del 30%, laddove i farmaci specifici si attestano su un modesto 40%”. Egli sotttolineava, infine, che “ciò che è peggio è che pare che l’effetto placebo stia aumentando nei soggetti anno per anno per ragioni ancora oscure”. E, dunque, quale sarà il principio attivo del placebo e che strana magia potrà mai agire nella somministrazione di uno zuccherino in un contesto clinico? Non sarà l’effetto di un nascosto, misterioso fattore attivo in tutte le situazioni di cura o, magari, persino in tutte le interazioni tra soggetti? Non si tratterà forse di qualcosa che abita la faccia nascosta della luna? Qualcosa che rivela una proprietà segreta dell’interazione, che, chissà, ha persino a che fare con la suggestione?
Freud escluse attivamente la suggestione dalla psicoanalisi, che contrappose alle pratiche terapeutiche suggestive. Gill, però, riconoscendo che nell’analisi è attiva una componente ineliminabile di suggestione, riteneva che essa debba essere analizzata e tale analisi farebbe la differenza tra la psicoanalisi e le terapie non psicoanalitiche. Ma è possibile analizzare una suggestione all’interno di una situazione suggestiva senza che l’analisi della suggestione diventi essa stessa una meta-suggestione? Setting, transfert, interpretazioni, analisi dei sogni non sono, forse, pratiche ritagliate nella materia sconosciuta di una irridente suggestione? Il “principio attivo del placebo” e il “principio attivo della psicoterapia” non potrebbero essere variazioni di questa “sostanza della suggestione”?
Forse, placebo e suggestione rimandano anch’essi all’altra faccia della psicoterapia, come “comunicazione inconscia”, “capacità (dell’analista) di leggere l’inconscio”, “apparato per pensare i pensieri”, “esperienza emozionale correttiva”, “nuova esperienza emozionale”, “empatia”, “identificazione proiettiva”, “sintonizzazione emotiva”, “co-costruzione della realtà”, costruzione intersoggettiva, “enactment”.
Quando finalmente l’occhio neutro di una fotocamera riuscì a sbirciare per la prima volta la faccia nascosta della luna ci si avvide che essa, butterata e pietrosa, non differiva da quella intravista dal cannocchiale di Galileo, tanto inviso agli aristotelici. Per l’altra faccia della psicoterapia potrebbe non essere così. Magari tra le pieghe di quella faccia non vista potrebbe annidarsi la soluzione dell'enigma misterioso e inquietante del “verdetto di Dodo”, quello che stabilisce che tutte corrono e tutte hanno diritto al premio perché tutte godono di pari efficacia. Magari nell’altra faccia delle psicoterapie non vige il semplice dominio delle leggi che regolano l’azione del soggetto, ma quello delle leggi che governano l’interazione tra soggetti.