Questo testo (qui per comodità suddiviso in quattro parti) fu presentato al Laboratorio di Verona il 22. 09. 18 come introduzione generale alla problematica del significato.

 

Il significato, l’azione che lo rivela e comunica, l’interpretazione e la sua comprensione da parte del P, l’insight, hanno sempre avuto un ruolo assolutamente centrale  nella psicoanalisi. L’interpretazione, infatti, nel suo duplice significato di “esplicitazione, mediante l’indagine analitica, del senso latente nei discorsi e nelle condotte di un soggetto” e di “ comunicazione fatta al soggetto e tendente a farlo accedere a questo senso latente”, ha avuto ed ha un ruolo così prevalente nella psicoanalisi che il suo dominio potrebbe essere, con buone ragioni, considerato coestensivo all’intero dominio del metodo. L'analista, poi, è, quasi per antonomasia, colui che "coglie significati e li comunica", l’ “interprete”, il lettore del “significato” nascosto. La centralità dell’interpretazione domina il discorso psicoanalitico sin dall’inizio, sin dalla traumdeutung, dalla “interpretazione”, appunto,  dei sogni. Centralità non significa, però, né chiarezza, né semplicità, né assenza di problemi e anzi la tematica del significato è forse la più complessa e difficile da affrontare a causa di eredità millenarie che risalgono sino ai greci e oltre, di altre più prossime, filosofiche, collegate  al costituirsi della scienza moderna e, infine, di quelle che, più direttamente, riguardano la tradizione psicoanalitica in sé.
Dal nostro punto di vista, il problema del significato si pone come sviluppo logico e conseguente della problematica del vincolo, che, nelle nostre riflessioni, sembra poter riassumere gran parte del territorio tradizionalmente occupato dal tema del significato. Prima però di focalizzare la nostra attenzione su questo, che è il nostro interesse specifico, è necessario anzitutto renderci conto concretamente del cumulo di problemi  che occupa tutta l’area del significato quando lo riferiamo a una terapia e in secondo luogo, dovremo anche soffermarci su alcune essenziali  premesse di carattere più generale, che potrebbero esserci utili per orientarci in questo groviglio di problemi


Pensiamo concretamente a un caso immaginario: Maria soffre di attacchi di panico e viene in terapia perché spera che T la “guarisca” o la aiuti a liberarsi da  questa sofferenza. T crede di poterla aiutare e, intanto, parte dal presupposto che il panico abbia un significato e che in un modo o nell’altro tale significato si connetta ad altri significati, che per Maria sono importanti e interconnessi. Parte anche dal presupposto che Maria “sa” questa costellazione di significati, anche se non è in grado di “dirseli e dirli” in modo esplicito e coerente e assume anche  che, tuttavia, Maria non potrà non rivelarli, attraverso indizi e attraverso l’insieme dei suoi racconti. T suppone anche di possedere un metodo, una qualche forma di chiave, che gli permetterà di cogliere questi significati nascosti.  Da qui in poi, però, cominciano le difficoltà. In questo caso, che cosa è “significato”? Se s’intende che il sintomo ha una qualche “intenzionalità inconsapevole” o “inconscia”, “significato” è allora sinonimo di movente, motivo, scopo. Se tuttavia si attribuisce al sintomo anche un ruolo di messaggio criptato, comunicazione inconsapevole, richiesta, allora si presuppone anche un significato preformato come contenuto del messaggio? Sempre e in ogni caso?
Maria entra, si siede, guarda, tace, parla, si agita, piange. Racconta storie, inframmezza ricordi, produce  considerazioni, valutazioni. Racconta un sogno. In tutti questi casi “significato” sembra piuttosto indicare il senso riposto delle azioni e degli atteggiamenti, ma anche  delle storie, dei racconti e dei sogni e forse anche i collegamenti  tra un ricordo e un sogno, ad esempio. Più avanti Maria esprime un disagio, dei timori, dei sentimenti, di rabbia, ad esempio. Tutte cose che sembrano rientrare nell’area del significato. Anche quando ciò non accade in modo esplicito, sappiamo dalla pragmatica della comunicazione, che ogni asserto o comunicazione pertiene a due differenti registri, di cui uno riguarda il contenuto dell’asserto, mentre il secondo verte sulla relazione. Ogni asserto implica cioè una comunicazione e una metacomunicazione, dunque due livelli di significato.
In un certo senso, tutto ciò sembra, contemporaneamente oscuro, ma anche, se non semplice, conosciuto. Certo la “conversazione” terapeutica mostra caratteristiche di apertura, di profondità, di discorso su cose molto intime e molto personali, che non sono frequentissime nella vita di tutti i giorni, ma per altri aspetti, sembra anche per lo più assomigliare a molte altre conversazioni, in cui siamo impegnati nella vita di tutti i giorni. In molte circostanze (in famiglia, in uno scompartimento del treno, in un salotto, tra amici... ), ci scambiamo tranquillamente “significati” senza porci troppi problemi sulla natura del significato; al massimo talvolta ci scontriamo con la difficoltà ad esprimere proprio ciò che vorremmo oppure, da certi indizi, riteniamo di dover concludere, che non siamo stati capiti. Anche in questi casi, le battute del dialogo hanno aspetti di comunicazione e di meta-comunicazione e, in uno scenario “interno”,  le affermazioni o comunicazioni dei nostri interlocutori suscitano un contrappunto emozionale, più o meno accentuato, che possiamo sentire come piacevole, spiacevole, noioso, divertente. Talvolta poi, la risposta emozionale interna può farsi assai più forte e tale non poter essere contenuta o celata tanto che, spesso,  essa si manifesta apertamente, con una smorfia, un sorriso, un pallore, un rossore, o con un’azione o una risposta pungente, rabbiosa o, invece, affettuosa, amichevole, tenera…. Queste risposte emotive, celate o espresse, hanno qualche relazione con il significato?  O sono esse stesse un’attribuzione di significato? Di che genere di significato? Talvolta, poi, proviamo una intensa sensazione di comprensione o al contrario di incomprensione e magari  ci troviamo a dover dire a qualcuno, con voce alterata: “ non hai capito proprio niente di me!” . In questi casi non ci riferiamo presumibilmente al significato delle parole. Talvolta accade anche che due fidanzati o due coniugi o due amici si debbano dire che “noi non ci capiamo più”. In questi casi essi sono ben consapevoli che la non comprensione non riguarda il significato delle parole, anche se non è facile dire che cosa riguardi.
Torniamo a Maria e alla sua terapia. T guarda, ascolta, pensa, avanza congetture, ogni tanto interviene, stabilisce collegamenti, forse, se è convinto di aver colto qualcosa di significativo  lo comunica a Maria, che conviene, accetta,  rifiuta, resta indifferente. Ora Maria sta raccontando di quella volta che sua madre si ammalò e venne portata all’ ospedale e lei, che aveva quattro anni si sentì morire. Ora, invece, sta raccontando un sogno a proposito del quale chiede: “cosa vuol dire?”. Più avanti accade che, dopo un periodo di buona collaborazione con il terapista, si mostra più riluttante; afferma  che la frequenza e l’entità dei suoi sintomi non si è per nulla modificata, e che, anzi, da molti punti di vista la sua situazione è peggiorata al punto da farle pensare che la psicoterapia, “sarà anche utile in tutti gli altri casi”, ma, per quanto la riguarda, sembra piuttosto “non produrre effetti”. Più tardi ancora Maria dice a T che, in realtà, a lui non interessa nulla di lei, che lei è solo uno dei suoi casi (“il caso delle ore 17 del Lunedì”). Succedono cose più complesse ancora, persino cose  che non si sa che sono successe, che bisogna anzitutto segmentare, percepire, separare, eppoi indicare, descrivere, cose che spesso hanno caratteristiche impalpabili o persino indicibili. Succede per esempio che T dica qualcosa, che, magari, ritiene banale od ovvio e subito dopo il comportamento di Maria cambia: si rabbuia, s’incupisce, si arrabbia  o, persino, sbatte la porta e se ne va.
Cosa è “significato”  in questo “dirsi” e “dirgli”?  Soprattutto sembra che, al di là dei contenuti, delle informazioni, delle puntualizzazioni su questo o su quello, Maria, sulla base di quanto ha detto o magari non detto, classifichi i significati, le comunicazioni e le azioni di T operando una sua personalissima discriminazione tra le azioni e comunicazioni di T e disponendole in due classi: le azioni della classe A, che indicano accettazione, e quelle della classe B, che indicano, invece. “non hai capito nulla di me”! E cosa è in questo caso “significato”?
 Sembra, dunque, che nel fluire della “conversazione” si presentino occorrenze, in cui  “significato” sta  per cose molto eterogenee: il significato di un sogno, di un ricordo, di un racconto, di un evento, di una riflessione o di una ricostruzione, di un rimprovero, di un vissuto denso di sentimento, di un’interazione, sono cose differenti. Soprattutto sembra che il genere di “significato”, con cui si ha a che fare in terapia, al di là del significato delle parole, abbia a che fare con il “senso di me” nell’esperienza, nella comunicazione, nel vissuto e nelle relazioni  e che questo significare, misterioso e cangiante si incarni in elementi, che spesso hanno un senso, un meta-senso, un meta-meta-senso…

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