Visto il ruolo del linguaggio nella costruzione del mondo là fuori sarà utile dedicare un pò di attenzione a come vede le cose la disciplina che del significato si è occupato in maniera, diciamo, professionale. La linguistica quindi.
In latino il termine significatus indicava l’atto del significare, del comunicare con un qualunque mezzo d’espressione. Sono soprattutto le parole a “significare” e ad “avere un significato”, ma anche i simboli e, più in generale, i segni veicolano un significato. In realtà, ogni cosa può avere significato: un’azione, un evento, un’entità, un istituzione (il “significato della costituzione”!). In questi casi, significato equivale a “valore” come nell’aggettivo “significativo”. Le parole hanno un “significato” definito e codificato in un dizionario, ma, spesso, per capire il significato di una frase  non basta conoscere il significato delle parole (“sono in un vicolo cieco”) ed è il contesto a determinare il “significato” (oggi fa proprio freddo = chiudi la finestra!).
La linguistica e, soprattutto la semiotica si sono occupate “professionalmente” del significato. E’ nota la distinzione tra significante (il segno materiale, i suoni che formano la parola “cane”) e significato (l’idea, il concetto di “cane” connesso al segno) ed è anche noto che non vi è alcun rapporto intrinseco tra i due elementi. Più precisamente la semiotica definisce il significare tramite il triangolo semiotico: il significato del segno è dato dalla cooperazione di tre elementi: il simbolo (o segno), l'idea (cioè il concetto) e il referente (cioè la realtà rappresentata dal segno). Il segno non ha alcun rapporto diretto con l'oggetto concreto, ma con l'immagine mentale.
Altri due importanti concetti sono stati precisati dalla semiologia: la definizione semiotica di  connotazione e la nozione di semiosi illimitata. Il concetto di connotazione fu definito in chiave semiotica da Hjelmslev, che in tal modo mise in evidenza un’ambiguità semantica: a volte il rapporto tra significante e significato non è semplicemente denotativo, ma pieno di ulteriori semantizzazioni. Così la foto di un cane avrà una valenza denotativa, ma allo stesso tempo aspetti connotativi, come l'inquadratura, la collocazione, la luce ecc. Peirce, introdusse il concetto di   interpretante. Il segno, infatti, non sta per qualcosa,  sotto tutti gli aspetti, ma in relazione ad  un fondamento condiviso. L'interpretante è la rappresentazione ulteriore dello stesso oggetto o significato. Ad esempio, il medico  coglie il rapporto tra il segno "macchie sulla pelle" e la malattia "morbillo". La parola "morbillo" è l'interpretante del segno. Non si deve confondere l’interprete con l’interpretante: "mentre l'interprete è colui che coglie il legame tra significante e significato, l'interpretante è un secondo significante che evidenzia in che senso si può dire che un certo significante veicola un certo significato". Peirce arriva così ad un concetto di significato del segno, che porta ad una semiosi illimitata, vale a dire ad un processo di significazione del segno, che continua a riprodursi.

Ciò che, nel triangolo semiotico, è indicato come “significato” ( e, dunque il “concetto”, l’ “idea”, per esempio di “tavolo”, indicata dal segno ||tavolo||) è un “fatto mentale”, un’immagine, rappresentazione o contenuto mentale e ciò implica che la significazione, come processo di costruzione, comunicazione e comprensione del senso, avviene, in ultima analisi, in una “mente” o tra “menti”. Già nella lingua vi è dunque un rimando, ad un punto di vista ed ad un ambito “psicologico”, che dovrebbe stabilire in che modo si formi questo “aspetto mentale” del significato, che non si esaurisce nella denotazione  codificata nel dizionario. Già in linguistica  questo problema si pone con il quesito se si debba  collocare il significato “dentro la testa” o “fuori”. Una concezione tradizionale, nota come solipsismo metodologico, sosteneva che il significato è qualcosa di “mentale”, uno “stato psicologico” del soggetto. Putnan critica in modo argomentato questa concezione,  sostenendo che “i significati non sono certo dentro la testa” e propone alternativamente l’ipotesi della “divisione del lavoro linguistico”. Non potremmo usare parole come “olmo” o “alluminio” se nessuno disponesse di un modo per riconoscere gli alberi di olmo e il metallo alluminio; ma non è necessario  che tutti coloro per i quali tale distinzione è importante posseggano la capacità di fare tale distinzione. (...). E sicuramente non  è necessario né pratico che tutti coloro, che hanno occasione di comprare o di portare dell’oro siano capaci di dire senza ombra di dubbio se qualcosa è o non è veramente d’oro. (... ). Chiunque abbia per una ragione qualsiasi  un interesse speciale per l’oro deve acquisire la parola “oro”, ma non è necessario che acquisisca il metodo per riconoscere se qualcosa è o non è oro: per fare questo può affidarsi ad una sottoclasse particolare di parlanti.

Conclusione: Il piano dei processi e il piano delle narrazioni

Noi naturalmente  non siamo né filosofi, né antropologi, né studiosi dell’evoluzione, né linguisti o semiologi. Ascoltiamo cosa hanno da dirci gli specialisti di questi ambiti, siamo particolarmente attenti a quanto ci dicono  i neuroscienziati sul funzionamento  del cervello-mente, ma siamo interessati  al significato da un punto di vista più ristretto e preciso: il punto di vista del significato delle cose che accadono in una seduta.

Già negli ultimi appuntamenti del Laboratorio a Brescia (tra il 2011 e il 2012) cominciammo ad occuparci del significato e anzi, mettemmo a punto uno schema, una vera e propria tabella dei “livelli di emergenza del significato”. A dire il vero, fino a due mesi fa, pensavo di riprendere la tematica del significato proprio a partire da quel testo e da quella tabella. Poi ho deciso di soprassedere e rimandare per un motivo che, del resto, mi era noto già ai tempi in cui quello schema venne elaborato e presentato. Infatti, come era esplicitamente dichiarato, quei livelli di emergenza del significato apparivano significativi solo a livello della narrazione considerata dal punto di vista meta-interattivo, mentre non aveva nulla da dire o, comunque risultava ambigua o reticente, a riguardo dell’interazione in senso stretto. Il fatto è che nell’interazione terapeutica abbiamo a che fare con molteplici livelli di interazione e di narrazione. In sintesi abbiamo:

  1. nella fase introduttiva della terapia (colloqui e questionario), una narrazione di P dell’ “allora” fatta nell’ “adesso”, che presumibilmente è il risultato della rete complessiva delle sue interazioni e meta-interazioni;
  2. questa narrazione è fatta  a T che la recepisce  a partire dalle sue reti di vincoli sia teorici che personali;
  3. con il procedere dell’interazione terapeutica si instaura la normale dinamica di interazione e metainterazione tra T e P;
  4. all’interno di questa dinamica si dipana la narrazione continua di P sia relativa all’allora sia relativa all’adesso e la narrazione parallela di T relativa a questa narrazione a riguardo dell’allora e dell’adesso;
  5. man mano  si agglutina anche un ulteriore livello di narrazione: quello relativo  all’interazione tra P e T, che sarà esplicita in T (e magari anche effettivamente raccontata in questa sede), mentre nel caso di P sarà per lo più implicita:
  6. contemporaneamente però continuano le interazioni e metainterazioni extra-setting di P con genitori, parentela, amici, fidanzati con l’ambiente del lavoro ecc.

Ognuno di questi livelli di interazione avrà un aspetto interattivo e uno meta-interattivo. Abbiamo sempre detto che  “La proprietà fondamentale dell’interazione è che essa “avviene” e non può essere cancellata o modificata dalla meta-interazione, (che la può tradire o falsare, ma non rendere non avvenuta), contemporaneamente, però, essa non può essere colta e raccontata (a se stessi o a un altro) se non tramite una operazione meta-interattiva. L’elemento essenziale della meta-interazione, invece, è che essa implica sempre e comunque una interazione nel senso che, come si è detto, anche una interpretazione, al di là del contenuto, interviene nel contesto come azione con suoi propri significati,  che  non sono necessariamente quelli previsti o voluti dall’intenzionalità dell’agente”.
A partire da questo assunto si spiega che nel redigere la tabella dei livelli di emergenza del significato ci si renda conto che essa può essere applicata soltanto dal punto di vista meta-interattivo, perché il significato emerge solo  da una narrazione esplicita o esplicitabile, dato che l’interazione in sé non può essere colta e raccontata (a se stessi o a un altro) se non tramite una operazione meta-interattiva. A fronte di ciò, tuttavia, si deve comunque rimarcare che l’effettiva marcatura emozionale (di conferma o disconferma dell’esperienza emozionale attesa) avviene a livello interattivo e non può essere cancellata o modificata dalla meta-interazione, (che la può tradire o falsare, ma non rendere non avvenuta).
E’ su questo punto che la tabella del 2011-12 restava reticente. Il lavoro fatto per tre anni e passa sullo sviluppo del singolo caso clinico di Sara ci viene in soccorso. Le analisi e le riflessioni sulle analisi a proposito dei significati emergenti nelle varie fasi di questa terapia si sono sempre poste a livello rigorosamente meta-interattivo sia quando riguardavano le interazioni intra- ed extra-setting di  Sara sia quando riguardavano gli interventi di T. Quando, però, una volta analizzato a fondo il vincolo centrale di Sara,  messi in evidenza i nessi tra il vincolo e “i veri problemi di Sara” e una volta osservate e registrate le modificazioni progressivamente intervenute nel suo comportamento, quasi spontaneamente ci siamo trovati a chiederci come siano nati sia il vincolo sia questi nessi e abbiamo rovesciato la frittata, partendo non più dal presente verso il passato, ma dal passato verso il presente. Con questo rovesciamento del punto di vista  in realtà ci stavamo interrogando sulle effettive interazioni di Sara e sul loro ruolo causativo e, dunque, ci stavamo spostando sul piano effettivamente “interattivo” a riguardo delle interazioni di Sara (nella prima e seconda infanzia, nella pubertà, preadolescenza e preadolescenza, nei vari rapporti amorosi) sino all’interazione terapeutica e ai suoi effetti. Lo facevamo naturalmente nell’unico modo possibile e cioè partendo dalle narrazioni e, dunque,  a partire comunque dalle meta-interazioni.
Ciò ci consente di chiarire l’impostazione del problema del significato: dobbiamo distinguere due piani: il piano dei processi e il piano delle narrazioni:

  1. Il piano dei processi è il piano effettivamente causativo cioè quello in cui le marcature emozionali effettivamente determinano e legano  i vincoli sul piano fattuale. Questo piano non è obbiettivamente raggiungibile in sè. E’, almeno per il momento e per lo stato attuale delle conoscenze, una sorta di noumeno, su cui si possono soltanto avanzare congetture e ipotesi. Sul piano generale, è dunque il piano delle teorie, mentre sul piano del singolo paziente è il campo delle ipotesi e congetture concrete relative alla formazione degli effettivi vincoli di quel preciso paziente alla luce delle sue concrete narrazioni e degli assunti teorici resi disponibili da quelle teorie.
  2. Il piano delle narrazioni è invece quello  in cui effettivamente emergono e possono emergere i significati ed è dunque il piano, sempre meta-interattivo, in cui è possibile interrogarci sui livelli di emergenza del significato.
  3. Infine, nasce un quesito importante: la restituzione congetturale della ricostruzione dei processi che ruolo potrà avere nel lavoro terapeutico complessivo? in che modo dovrà essere fatta e quando?

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